FACCE DISPARI

Il restauratore Cristiano Casonati: “Perché la macchina per scrivere fa bene al cervello”

Francesco Palmieri

Una vita in laboratorio, tra riparazioni e collaudi, testimone di un'altra epoca. "Il ticchettio favorisce la concentrazione, si fa più esercizio mnemonico. Ci si abitua a pensare di più, prima di battere. È il contrario del pc, dove metti giù i pensieri e poi correggi"

C’era una volta l’ipnotico frastuono delle macchine per scrivere che Leroy Anderson fece persino diventare musica d’orchestra. Nell’acustica delle redazioni un orecchio allenato intuiva il diagramma di un articolo seguendo i silenzi e il ritmo dei tasti percossi spezzato dai ‘ding’ del carrello, mentre un altro ticchettio serale e distante lasciava capire quanto il direttore fosse ispirato per l’editoriale e se lo strofinìo del foglio sul rullo esprimesse la soddisfazione del pezzo finito o un incipit destinato al cestino.

Questo compone, assieme ai cirri di fumo e ai tonfi dei bossoli di posta pneumatica, l’attenuato ricordo di pochi perché l’acustica nei giornali, già con l’introduzione dei primi terminali, si sarebbe trasformata in “un rumore sordo come d’acciottolio” con l’impressione, scrisse Tom Wolfe, che negli stanzoni di cronaca “fosse in corso un immenso torneo di mah-jong”.

Nostalgico piacere è la conversazione con Cristiano Marino Casonati, classe 1964, una vita fra macchine per scrivere, calcolatrici, giradischi e fonovaligie che lui restaura a San Donato Milanese avendo appreso il mestiere dal padre Nevio, 86 anni, testimone di un’epoca in cui la presenza di una portatile Olivetti, come di un mandolino, era consueta nelle case degli italiani.

 

Quando ha cominciato a riparare macchine per scrivere?

Nei pomeriggi dopo scuola aiutavo papà in laboratorio. Smontando le macchine, eseguendo i collaudi, imparando a rimontarle. Mio padre, originario di Mantova, fu tra i migliori tecnici Olivetti e visse l’epoca d’oro degli anni cinquanta girando per il Basso mantovano su una Isomoto anche d’inverno, con il ghiaccio che si formava sotto il passamontagna, a vendere le macchine per scrivere. Si comprava una Lettera 22 anche a cambiali: costava quasi quanto uno stipendio.

 

Quali aspettative prometteva?

Per molte famiglie era necessario che i figli trovassero presto un lavoro e saper battere a macchina era fra le competenze per impiegarsi in ditta. Negli anni ’60 sono arrivati modelli più leggeri e ingegnerizzati, ma il laboratorio che mio padre trasferì a Milano nel 1961 si occupava pure delle monumentali macchine da ufficio. Quando nell’alluvione di Firenze del ’66 furono travolte dalle acque gliele consegnarono e lui comprò una lavatrice industriale per ripulirle dal fango, le riassemblò e restituì perfettamente funzionanti lavorando anche sedici ore al giorno.

Chi si rivolge a lei per le riparazioni?

C’è una richiesta crescente: giovani che vogliono risistemare la macchina del nonno; amanti del design con una Valentine di Sottsass; notai o commercialisti che restaurano il pezzo d’epoca per esporlo come elemento di prestigio, perché ai clienti dà l’impressione di un’attività avviata da più generazioni. Poi i collezionisti: Fabio Fazio mi portò in riparazione la Lettera 22 appartenuta a un certo scrittore che non ricordo. Infine, chiaramente, i giornalisti.

 

Come reperisce le parti danneggiate o mancanti?

O le ricostruisco o giro per mercatini cercando macchine da cui attingere i ricambi. Per i nastri se ne trovano, quasi tutti fatti in Cina, invece le bobine sono rare. Nel mondo ci sono solo due o tre fabbrichette che producono ancora macchine economiche per uso non professionale, ma negli Stati Uniti si registra una rinascita d’interesse.

Come giudica la scrittura su macchina meccanica rispetto a quella sul pc?

Intanto richiede impegno muscolare, ci vuole più fatica a fissare le parole sulla carta. Scrittori e blogger mi dicono la stessa cosa: quant’è diverso costruire frasi senza copia e incolla. Se sbagli devi strappare il foglio e ricominciare. Quindi ci si abitua a pensare di più prima di scrivere. Inoltre il ticchettio favorisce la concentrazione, il cervello fa più esercizio mnemonico. È il contrario del pc, dove metti giù i pensieri e poi correggi.

Ricorda qualche committenza particolare?

Uno stilista mi ha fatto modificare la sua Remington per scrivere sulla stoffa e griffare direttamente cravatte e fazzoletti. Poi ricordo un tizio strambo che una decina di anni fa mi portò una calcolatrice chiedendo di restaurarla in modo che sbagliasse le operazioni. Quando gliela restituii impazzita era molto contento. Qualche volta ho prestato macchine al Piccolo Teatro Strehler per esigenze di scena e affittai alla Rai di Milano una Remington 12 per Gambarotta e Celentano: mi sembra fosse per uno sketch sui gangster degli anni venti.

I suoi modelli preferiti?

Fra le portatili Lettera 22, Olympia sm3 e sm9 e l’Hermes 3000. Un gioiello. Le conservo per mia figlia Vittoria che ha 9 anni. Omaggio all’emancipazione femminile.

 

Perché?

La macchina per scrivere offrì tra i primi sbocchi lavorativi alle donne. Erano più precise degli uomini come dattilografe e fu un passo verso la loro autonomia. Difatti le prime macchine avevano la leva dell’interlinea a destra, perché all’epoca erano molto pesanti e il braccio destro era considerato più forte.

Se avesse una macchina per riscrivere il tempo, chi vorrebbe incontrare?

Alfredo Tombolini, campione mondiale di velocità. Più di 900 battute al minuto negli anni cinquanta. I dettatori si sentivano male perché non riuscivano a stargli dietro, anche se indicavano gli ‘a capo’ con un colpo di matita e la punteggiatura con la sola intonazione di voce.

 

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