come un saltimbanco
Cesare Zavattini, un uomo in volo che rompeva le regole giocando con le parole
Lo sceneggiatore di "Ladri di biciclette" e "Miracolo a Milano" è entrato nella storia del Novecento lasciando tracce nella scrittura come nel mondo dell’editoria, del giornalismo, dei fumetti, del cinema, della fotografia e della pittura. A 120 anni dalla nascita, il "Diario" inedito è in libreria
Girava per la città sventolando una lettera di Benedetto Croce che benediceva il suo esordio letterario nel 1931 dal titolo Parliamo tanto di me. Niente di più lontano dai gusti di Croce – si potrebbe pensare – quel libretto che pareva scritto per bambini, favola con parole semplici e facili di un viaggio nell’oltretomba, eppure Croce ne aveva intuito la portata rivoluzionaria nel panorama della letteratura contemporanea connotata per lo più da modelli tradizionali del narrare di stampo realista. Cesare Zavattini aveva portato una corrente d’aria nuova, aveva rotto le regole giocando con le parole come un saltimbanco, scegliendo da subito la strada di una controletteratura, di una surrealtà tragicomica. Croce lo aveva salutato come nuovo scrittore, avvenimento sensazionale per Za: “Era una lettera preziosa di elogio per il mio primo libro, una lettera molto generosa, affermava che le sue figlie si erano molto divertite”. Sfortunatamente andò perduta per errore in un’intera cassa di corrispondenza compromettente che finì al rogo “per paura esageratissima della polizia”, considerati i tempi.
Un successo immediato e clamoroso, una fiammata non comune, una ristampa dopo l’altra e un coro di elogi ai quali si unì anche Pirandello. Ma l’avventura con l’editore Valentino Bompiani non era andata subito per il verso giusto. Quando Za gli fece visita, Bompiani si trovò davanti uno sconosciuto “grosso e timido” che non ispirava fiducia: “Si era seduto e taceva, intento a strapparsi con metodo le sopracciglia. Tirò fuori dal taschino o forse dalla manica un rotoletto di ritagli. Li posò sul tavolo e vi accennava come se si trattasse di ciambelle che mi invitava ad assaggiare”. Offeso dal fatto che si aspettava Stendhal e aveva invece la sensazione di perdere tempo con “leccornie paesane”, Bompiani gli suggerì di scrivere un racconto per ragazzi. Dopo due settimane Za tornò con un rotolo di foglietti scritti a macchina, gli stessi pezzi ricopiati senza cambiarne una virgola. Il plico rimase sullo scrittoio, finché un giorno l’occhio di Bompiani, sfogliandolo, colse una frase che lo fece sobbalzare: “Le proibisco di pensare alla morte nelle ore di ufficio”. Immediata la convocazione di Za il quale stette in ascolto pochi minuti, ritirò il manoscritto, si prese due mesi per lavorarci. Il titolo, perfetto, lo trovò l’editore; la copertina raffigurava un funeralino, primo disegno dell’autore. Nel libro di memorie Via privata Bompiani delinea un ritratto formidabile di colui che sarebbe diventato subito un collaboratore insostituibile ma soprattutto un fratello: “Per la strada, ampio e svolazzante, sembra una campana. Mille amici, mille appuntamenti al volo, un’aria di sommossa lo accompagna: la sua popolarità è in quel vento. La sua ora è quella che precede un temporale e la natura si fa umana e scoperta. La natura segreta di Zavattini è la natura di un acrobata: cammina su una corda tesa”.
Soltanto nella pianura del Po poteva nascere “il sanguigno e volante, concreto e fantastico, imprendibile, indefinibile Za”
E’ sufficiente guardare un altro famoso disegno di Za, scelto dalla Nave di Teseo per la copertina del suo Diario inedito (primo volume in libreria il 20 settembre): una litografia dal titolo Al tabar, il tabarro dei contadini della Bassa reggiana, il mantello che come un bozzolo li ripara dalla nebbia. L’autoritratto ha la forma di una campana che avvolge, svolazzante, la mole massiccia di quel funambolo della parola e dell’immagine che è stato il grande, umanissimo Zavattini di Luzzara. Lo aveva capito bene anche l’amico Attilio Bertolucci che soltanto nella pianura del Po, ricca di umori e di nebbie, poteva nascere “il sanguigno e volante, concreto e fantastico, imprendibile, indefinibile, inclassificabile, unico, Za”.
Già, perché Luzzara, il paese natale, e il Po ondivago sono elementi cruciali per comprendere la natura errabonda della sua indole sospesa tra genialità e malinconia, quella peculiare crisalide inconfondibile nei lunatici scrittori della Bassa (un esempio per tutti, Gianni Celati) che sanno andare al cuore delle cose con disarmante, innocente sincerità. “Ma no, non scrivere, Cesare – annota nel diario il 4 maggio 1967 – questa luce ti colpì le palpebre il 20 settembre 1902. Perché interrompere dicendo chi è? Non può esserci nulla di più bello dell’essere, del morire, del datemi una parola che non la sia. Il silenzio solo è sempre uguale. Per questo sono di pianura, meglio non essere nato se la sorte ti allontana dalle origini”.
Bambino lasciato lungamente solo sin dai primi anni, sviluppa attenzione, sguardo, ascolto, anzitutto nei confronti di se stesso
“Sono nato in una botte” – ricorda spesso nei quaderni – dove i giovanissimi genitori Ida e Arturo lo concepirono tra gemiti e contorcimenti, sbattendo testa e gomiti: una scena primaria più volte evocata. Za venne alla luce il 20 settembre 1902. Saranno presto 120 anni dalla nascita: Milano, capitale morale per Za, dove, ai vertici dell’editoria per un decennio (’30-’40), era conteso da Rizzoli e Mondadori, gli renderà omaggio intitolandogli un giardino e una targa, nei luoghi dove fu girato Miracolo a Milano (che compie 71 anni). I genitori di Cesare Zavattini erano per parte di padre caffettieri, provenienti dalla riva lombarda del Po, e per parte di madre fornai di origine contadina emiliana. Da qui la sua passione per il pane: quando ormai viveva a Roma, Za era capace di farsi accompagnare di corsa in macchina a Luzzara per gustare le famose “cioppe” di pane dalla pasta morbida e tiepida di forno, e poi rientrare nel cuore della notte e addormentarsi felice nel letto pieno di briciole. Il padre aveva un’indole allegra, gli bastava una bottiglia di lambrusco per dimenticare guai e debiti; Ida altrettanto, fantasiosa, lesta nelle battute sino alla soglia dei cent’anni. Cesare, che in vecchiaia ammette di aver vissuto una “infanzia spaventata” dai problemi paterni, dalla precarietà della famiglia, mostra la sua felicità “confortante, semplice, pulita” quando in una pagina bellissima rammenta una notte con suo padre: “Una volta, quando avevo due tre anni, siccome dormivo nel lettone coi miei genitori, fui svegliato e impaurito dal loro smodato far l’amore, piansi forte, mio padre mi prese tra le braccia e mi portò alla finestra a vedere che cadeva la neve, mi calmai, non ricordo altro. L’ultima immagine è mio padre nudo (aveva la maglietta) che reggeva me in braccio davanti alla finestra mentre nevicava e mi diceva ‘guarda guarda’” (3 luglio 1986).
Ecco, nasce da qui la poetica zavattiniana dell’occhio: bambino lasciato lungamente solo sin dai primi anni, impegnato a costruire il proprio universo, sviluppa subito attenzione, sguardo, ascolto, anzitutto nei confronti di se stesso, un sé composto di abnorme interiorità, e successivamente una precoce curiosità per il mondo, per l’umanità. Si allena un occhio avvezzo a non staccare mai dall’assimilazione meticolosa di immagini. Con la velocità degli occhi che corrono su tutto, il bambino Cesare, estroso e ricettivo, stregato dagli esseri umani, comprende che si può guardare la realtà con passione, mai indifferenza o noia, che si può dare una parola a ogni gesto, a ogni accadimento, persino banale: una grammatica della conoscenza (Le cento parole che fanno e disfanno il mondo) non aliena dall’accogliere persino la paura del male, del dolore, della morte. Non è un caso se, vegliando il padre morente, con la fantasia sognava di volare in un altrove immaginifico e consolatorio, annotando i primi raccontini dionisiaci, pieni di luce e di senso, esatti e inevitabili, che andranno a formare il corpus del Parliamo tanto di me. Negli intervalli di quella lunga agonia, Za ne leggeva qualche passaggio al padre e lui rideva: morì con la consapevolezza che quel figlio avrebbe fatto qualcosa di buono.
Attilio Bertolucci e Pietrino Bianchi lo iniziarono al cinema portandolo a vedere “La febbre dell’oro” di Chaplin, un colpo di fulmine
A Milano nel 1931 Za aveva 29 anni e un progetto: diventare “qualcuno”, lo sapeva, lo aveva sempre saputo. La sua fortuna è stata la capacità di piantare radici nei passaggi cruciali del destino: ogni tappa, ogni incontro. Bigiava a scuola, preferiva appostarsi in strada a spiare le mosse dei borseggiatori, trascorreva ore nei teatrini del varietà, attratto da Fregoli per capire cosa succedeva dietro le quinte. Quando era giovane istitutore al Collegio Maria Luigia di Parma si divertiva a ipnotizzare; due allievi pressoché coetanei, Attilio Bertolucci e Pietrino Bianchi, lo iniziarono al cinema portandolo a vedere La febbre dell’oro di Chaplin, un colpo di fulmine per Za. Nutriva una grande passione per la lettura: Dumas, Salgari, Goldoni. Più tardi rimase incantato dalla Recherche proustiana, come da Dostoevskij, Tolstoj, eppure – avrebbe raccontato – in lui “mandrie di cellule si spostarono e cambiarono forma” soltanto alla lettura di Un uomo finito di Giovanni Papini, autobiografia scritta a 30 anni nel 1913, dove lo scrittore fiorentino ammette di essere nato con “la mania della grandezza”.
Per quanto avesse sempre concepito l’uomo di cultura come “uno che fatica sui libri, che legge molto, che riesce a dare un carattere organico a tutto ciò che apprende”, Za autodidatta intelligente, colto per fiuto e curiosità vorace, a suo dire se l’è sempre cavata con l’immaginazione, con apologhi, metafore, aforismi. “Tutto ciò che accadrà è già in noi in immagini”, annota nel ’44. Nessun timore della pagina bianca, nessuna propensione per complesse elaborazioni mentali o romanzi dal fiato lungo: preciso nel fornire dettagli sulla propria poetica, ha sempre confessato che pigrizia e impazienza gli hanno impedito la capacità di sbalzare personaggi a tutto tondo, di costruire progetti grandiosi. Nello scrivere entrò subito per la via maestra, scegliendo all’inizio la forma breve: raccontini, scrittura in prima persona, e una sistematica attitudine diaristica. Racconti acclamati da Italo Calvino (“Caro Zavattini, l’Ipocrita mi ha ridato il gusto di te scrittore. Hai una felicità di invenzioni fantastiche e morali che fanno restare nella memoria ogni parola” gli scrisse a proposito del libro Ipocrita 1943) e da Gianfranco Contini, il quale ne fece inserire alcuni in una rarissima antologia pubblicata in Francia nel 1946.
Datemi una parola che non la sia, ha affermato Za: la sua estraneità all’erudizione, alla letterarietà, a uno scrivere appannaggio di pochi, a un pensiero di pochi, è da subito netta e approderà, nella seconda fase della sua narrativa ideologica, alla negazione celeberrima del Non libro più disco (1970), chiara scelta di un parlato diretto, gridato, libero sino alla provocazione scandalistica, attraverso l’uso di un magnetofono che asseconda la rapidità del pensiero rispetto alla lentezza dello scrivere. Il prefisso “non” diventa cifra di una rivoluzione nel campo della parola e della immagine: Za non amava lo scrivere ingessato, insieme di “riti interiori ed esteriori più pesanti dell’aria”. Non amava il cinema compiaciuto, estetizzante, il cinema spettacolo, in favore di un cinema neorealista che mostrasse agli spettatori l’umanità di individui comuni, il dettaglio di un gesto umile e commovente, la “meravigliosa uguaglianza degli esseri umani” che faceva emergere nelle sceneggiature memorabili con le quali ha rivoluzionato lo schermo: pietre miliari come Miracolo a Milano, Ladri di biciclette, Umberto D, realizzati con De Sica, in accoppiata perfetta.
Fu capito nella sua grandezza e originalità? Spesso lamentava nei diari quanto in Italia il neorealismo fosse sostanzialmente fallito
Con il suo stile inconfondibile, con il sovvertimento di stili tradizionali, senza avere modelli prestabiliti e unico nel suo genere, Zavattini, capace di far leva su uno stato di grazia, di effervescenza permanente, su una sorprendente capacità visionaria, è entrato nella storia del Novecento lasciando tracce cospicue del suo passaggio in ogni campo della cultura e delle arti: nella scrittura come nel mondo dell’editoria, del giornalismo, dei fumetti, nel cinema e nella fotografia, nella pittura con quel suo istinto naturale per forme e colori, privo totalmente di studi. Vi è entrato con la leggerezza del volo e dei sogni, con apparente semplicità spesso scambiata per ingenuità, ma con lo spessore di un pensiero critico vivacissimo, giovane e sempre coerente con se stesso, polemico quando necessario, pronto a scaldarsi – da timido quale era – quando fiutava torti e strumentalizzazioni, mite e pacifico, non pacifista ma lottatore strenuo in favore della Pace, il gran “tema dei temi” (era stato insignito nel 1955 a Stoccolma del Premio internazionale della Pace), ossessione dedicata soprattutto ai bambini (l’ora della pace nelle scuole).
Fu capito nella sua grandezza e originalità quest’uomo diretto, espansivo, esuberante, generoso nel regalare a tutti, nello sperperare idee e progetti? Fu sottovalutato? Spesso lamentava nei diari quanto in Italia il neorealismo fosse sostanzialmente fallito, non si era compresa la portata rivoluzionaria di un linguaggio innovativo, mentre in tutto il mondo gli erano stati tributati onori e premi. “Sono famoso per quello che non ho fatto” era il suo grottesco refrain, ma si prese una rivincita testamentaria ormai ottantenne, quando gli venne finalmente il coraggio di mettere il proprio occhio nell’obiettivo della cinepresa e di fare tutto da solo, regista, sceneggiatore, interprete di se stesso, un pazzo in camicie bianco, libero di dire tutto persino al Papa (La veritaaaà, 1982).
Non seppe mai che Gabriel García Márquez si era fatto seppellire con il basco che Za gli aveva regalato, identico a quello che Cesare portava sempre. Giovanissimo studente presso il Centro sperimentale di cinematografia a Roma diretto da Za, Márquez ha voluto così simboleggiare la gratitudine verso il suo maestro, senza il quale non avrebbe mai scritto Cent’anni di solitudine, quel capolavoro di realismo magico che gli valse il Nobel.