grandi imperi
Una storia ragionata della globalizzazione ante litteram delle civiltà del passato
Maurice Sartre ci accompagna a “uscire dai sentieri battuti del mondo mediterraneo” per capire che “i mondi antichi non sono così chiusi su loro stessi”
Cosa ci faceva una statuetta in avorio della dea Lakshmi proveniente dall’India tra le rovine vulcaniche di Pompei? Certo, “da sola non prova nulla”, ma è una conferma di quello che raccontano i testi di Plinio il Vecchio, cioè di quei frequenti commerci tra la Roma antica degli anni di Tiberio, Claudio e Caligola e il continente indiano, da cui arrivavano mercanzie come seta e ceramica. Nel suo ultimo libro, “La nave di Palmira” (Einaudi, traduzione di D. Cavallini), lo studioso francese Maurice Sartre parte dai documenti degli storici romani, anche minori, e dai manufatti ritrovati in luoghi inusuali, per costruire una mappatura dei rapporti tra i diversi imperi.
Alla scuola dell’obbligo tendenzialmente si invitano gli studenti a guardare alle “grandi civiltà” seguendo un ordine cronologico che vuole mettere gli egizi prima dei fenici e i fenici prima dei greci e i greci prima dei romani e via così, fino al Medioevo. Ma Sartre ci ricorda che i vari stati e le varie culture convivono e si sovrappongono nel corso dei secoli.
Non si può certo parlare di globalizzazione – due continenti, America e Oceania, erano ancora sconosciuti, se non a chi ci viveva – ma esisteva già una rete di rapporti tra mercanti, generali, governatori e diplomatici che andava dal Vietnam al Baltico, dalla Francia all’Arabia, dall’India a Roma, in un tempo in cui il cavallo era via terra il mezzo più veloce.
A Kabul, per via di questi scambi e colonizzazioni, gli archeologi hanno trovato lacche cinesi, avori indiani e vetri dipinti. È soprattutto nel primo secolo d. C. che greci e romani si appassionano ai grandi viaggi in oriente, e per quanto ci fosse curiosità intellettuale per mondi lontani “non si può trascurare il fatto che l’attrattiva del profitto, come già sottolineato da Strabone e Plinio, prevalesse sulla passione per la scienza”. Il commercio, la sete di materiali preziosi e inusuali, di oggetti raffinati e di incensi profumati, l’incentivo a rivenderli con prezzi quadruplicati in un mercato romano o ateniese, è il motore principale di queste esplorazioni, ancor di più del desiderio di conquista e di ampliamento degli imperi. I racconti dei greci ci permettono anche di avere informazioni su popolazioni che hanno lasciato ben poco, se non nulla, di scritto.
Maurice Sartre ci accompagna così a “uscire dai sentieri battuti del mondo mediterraneo” per capire che “i mondi antichi non sono così chiusi su loro stessi”. Ad esempio, nell’India del nord troviamo una tomba con un’elegante poesia in greco piena di richiami omerici a opera di un uomo della zona; attraverso questi scritti e, come sempre, attraverso le monete, vediamo quanto fosse profonda l’influenza ellenica, in particolar modo alessandrina, tra le élite indiane, tanto che per un periodo il buddismo utilizza immagini e miti mediterranei – Eracle e il leone – prima di arrivare alla forma più orientale del Buddha che conosciamo oggi.
Proprio per l’importanza che manufatti e rovine possono avere per farci comprendere il passato dell’umanità, il professor Sartre ha preso voce contro chi distrugge e chi vorrebbe eliminare pezzi del passato, più o meno recente. È accaduto quando l’Isis ha distrutto i templi a Palmira e i resti assiri di Nimrud, poi quando la guerra in Siria ha raso al suolo la città di Aleppo e infine quando è iniziata la nuova ondata iconoclasta woke contro le statue di schiavisti nelle piazze europee e americane.
“Se c’è una cosa davvero intollerabile è giudicare le persone e i fatti del passato con i nostri criteri di oggi”, ha detto lo storico quando due anni fa la statua di Colbert davanti all’Assemblea nazionale è stata vandalizzata e ricoperta di pittura rossa. Colbert, che aveva codificato le regole sulla schiavitù nelle colonie francesi, non è stato l’unico: anche la statua di Voltaire in rue de la Seine era stata imbrattata per via dei commerci coloniali del filosofo. Non possiamo certo paragonare i Social Justice Warrior allo Stato islamico, ma per uno storico l’iconoclastia è sempre la creazione di un buco nel passato.