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“La scheggia”, opera breve e terribile di Vladimir Zazubrin
Il terrore sovietico spiegato dal carnefice. Quando la storia si fa cronaca: molte le pagine difficili da sopportare, che raccontano l’atmosfera appiccicosa e tetra di certi umidi sotterranei della Ceka
"Mosca non crede alle lacrime” era il titolo di un film di Vladimir Menshov uscito nel 1979, Oscar per il miglior film straniero nel 1981. Reagan lo recensì così: “Non ci ho capito niente”. In realtà il titolo è un detto, ma il detto non viene dal titolo, seppur la trama sia riassumibile in: Ekaterina va in città e, suo malgrado, scoprirà le asprezze della vita. Già in un romanzo del 1868 di Nikolaj Leskov ci si imbatteva infatti in questa espressione, col monologo finale della protagonista che singhiozzava: “Mosca non crede alle lacrime, come dice anche il proverbio…” La teoria più accreditata fa però risalire a cinque secoli prima questo modo di dire, a un’epoca feudale in cui i principati erano messi in ginocchio dai balzelli di Mosca ladrona a opera dell’inflessibile principe Ivan I e dei suoi avidi esattori.
Ma “Mosca non crede alle lacrime” è anche la frase terribile, che sigilla un botta e risposta terribile, in un luogo terribile, nel primo terribile capitolo del romanzo La scheggia, opera breve (e terribile) di Vladimir Zazubrin. Curato da Serena Vitale – mai perdersi le prefazioni, le postfazioni, le note e noterelle a sua firma – uscito per Adelphi nel 1990 e scritto cent’anni fa, nel 1923, il romanzo venne censurato, rimosso e defalcato insieme al suo autore dalla storia ufficiale delle lettere russe, riabilitato solo nel 1989 quando venne scoperto da una stidiosa nella sezione Manoscritti della Biblioteca di Lenin. L’accusa? Pessimismo, ripiegamento, psicologismo. Che nel gergo torvo della Russia sovietica significava, semplicemente, aver consegnato un romanzo che qualche domanda se la faceva davvero. Ne La scheggia ci sono domande, risposte, ritmo incalzante e scene agghiaccianti.
E rispunta “Mosca non crede alle lacrime”, frase-accetta con cui il protagonista-carnefice taglia corto mentre un condannato gli si rivolge implorandolo di non essere ucciso. Il carnefice è Andrej Srubov, fucilatore ufficiale della Ceka e il condannato è uno dei tanti, sterminati a mazzi di cinque dopo averli fatti denudare (“Poi sotto i piedi resta una gialla gelatina rossastra, viscida, e i topi leccano sangue umano dal pavimento”), issati con le corde dai sotterranei e portati via da appositi camion rimuovi-cadaveri. Il suo atto d’accusa verso il terrore rosso è furente, ma strazia più di qualunque altra opera sul tema: molte le pagine difficili da sopportare, che raccontano l’atmosfera appiccicosa e tetra di certi umidi sotterranei della Ceka. “Quelli allegri sono i più facili da ammazzare. Ma quelli che cominciano a piangere… Poi, solo strati di ossa craniche e melma di cervella”.
Mosca non crede alle lacrime e in fondo il compagno Srubov non crede a se stesso, a un certo punto non crede più nel fatto di poter continuare a farlo – “perché da qualche tempo ho paura di scendere nel sotterraneo?” – e sebbene ami la rivoluzione ha bisogno di bere, non dorme per settimane oppure sviene senza spogliarsi, è visitato dai fantasmi, tormentato dal sangue e ogni notte vede l’ombra del padre che torna dal regno dei morti dove l’ha spedito il suo compagno di fucilazioni Isaak. Srubov sapeva, ha sentito il colpo di pistola che l’ha eliminato, e alla fine cade in un dirupo dostoevskiano da cui, stomacato e delirante, si farà inghiottire fino alla follia, terrorizzato dal terrore di cui lui è braccio armato, perseguitato da se stesso in mille frammenti insanguinati di altri.
Questa è la storia di Srubov il taglialegna – “lo sterminatore, il boia, il vuotacessi della rivoluzione” – e delle schegge di tutte le “bianche betulle abbattute”, la storia di come i destini individuali siano così tragici e cagionevoli nella Russia di ieri e in quella di oggi. E guardare, oggi, i volti degli arruolati a forza da Putin, la loro cupa sfilata a farsi benedire dai patriarchi, quei volti stanchi e deturpati da destini di penurie, è tutt’uno con la lettura di questo libro di ieri che racconta la potenza omicida dell’idea, la grande macchina che sbriciola.
Poco è cambiato, quegli arruolati si troveranno dalla parte del torto e alla fine non avranno nemmeno tentato di avere ragione perché il terrore li inghiotte inghiottirà chi turpemente li ha mandati a crepare, e questa è la storia di un paese che ha divorato se stesso.
Mosca non crede alle lacrime e nemmeno a chi muore, perché chi muore è in colpa come chi vive, e chi vive muore e basta. “Il cekista che ha fucilato cinquanta controrivoluzionari”, dice Srubov, “andrebbe fucilato per cinquantunesimo”.