storia di un'illusione
La trappola del '23. Così liberali e sinistra regalarono il governo a Mussolini
A partorire la legge elettorale Acerbo fu una specie di bicamerale, rappresentativa di tutte le forze politiche. Fu un suicidio. Le elezioni del '24 furono le ultime, poi la dittatura. Chi gliel'aveva fatto fare? La verità è che in tanti pensavano di poter addomesticare i fascisti: avevano torto
"Siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo": così scrive il leader socialista Filippo Turati alla sua compagna Anna Kuliscioff nel commentare l’esito delle discussioni e delle votazioni nell’estate del 1923 che condussero all’approvazione della nuova legge elettorale. Quando dice “noi” intende ovviamente la sinistra, il suo partito socialista spaccato in cento spezzoni prima ancora della scissione comunista, ma anche, anzi soprattutto, il centro, i liberali, i cattolici.
La “Commissione dei diciotto” che aveva partorito la nuova legge elettorale era una specie di “bicamerale”, rappresentativa di tutte le forze politiche. Ne facevano parte ex presidenti del Consiglio, politici del calibro di Giovanni Giolitti, che ne era il presidente, Ivanoe Bonomi, Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando, Costantino Lazzari (la sinistra “rivoluzionaria”), Alcide De Gasperi, Eugenio Chiesa (un repubblicano che riteneva che i fascisti potessero essere “costituzionalizzati”) e, appunto, il socialista Filippo Turati. Antonio Graziadei rappresentava i comunisti, Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi i fascisti, Paolo Orano il gruppo misto (in realtà era anche lui fascista). La legge prese il nome dall’estensore, il sottosegretario alla presidenza Giacomo Acerbo. Acerbo non era affatto fascista, era un conservatore, eletto col Blocco nazionale ideato nel 1921 da Giolitti per fermare le sinistre, insomma in una specie di coalizione di centrodestra. La legge Acerbo intendeva rimediare all’instabilità che portava a cadere un governo dopo l’altro. Non modificava la Costituzione. Modificava il sistema proporzionale in vigore dal 1919, integrandolo con un premio di maggioranza in quota fissa, pari ai due terzi dei seggi, a beneficio del partito più votato qualora questo avesse superato il quorum del 25 per cento. Insomma bastava un quarto dei voti per avere una maggioranza imbattibile, a prova di opposizione. Il nuovo meccanismo non ebbe lunga vita. Sarebbe stato usato solo una volta, per le elezioni del 1924. Le ultime.
Della commissione che approvò la legge Acerbo facevano parte anche Giolitti, Salandra, Orlando, De Gasperi, il socialista Turati
Chi gliel’aveva fatto fare, a tante persone perbene, di caldeggiare una riforma elettorale che avrebbe finito col dare il comando assoluto a un solo partito e al suo duce? “Che un meccanismo di questo genere sia stato approvato da una Camera in cui la stragrande maggioranza era divisa tra i sostenitori della proporzionale (i partiti di massa [socialisti e popolari]) e nostalgici del collegio uninominale (i gruppi liberal-democratici) è cosa che non finisce di stupire”, il commento di Giovanni Sabbatucci nel suo ormai classico articolo Il suicidio della classe dirigente liberale. La legge Acerbo 1923-1924. Dio non voglia che in tempi di suicidio in massa di movimenti, partiti vecchi e nuovi, e delle rispettive leadership, ci si debba continuare a “stupire” (la parola ha la stessa radice etimologica di “stupido”).
Luca Falsini è autore di un saggio fresco di stampa per Donzelli, Nelle braccia del duce, Breve storia d’Italia dalla Grande guerra al Fascismo 1917-1923. Sulla scorta di un’inoppugnabile documentazione, che tiene conto di quasi tutti gli studi più seri e più recenti, sostiene che a portare, quasi senza colpo ferire, l’Italia “nelle braccia di Mussolini” furono non tanto i fascisti, e nemmeno il terrore suscitato dai “rossi”, quanto i liberali. “Furono i governi liberali a tollerare le violenze fasciste, nell’ottica di contenere le proteste sociali, finendo presto col perderne il controllo; furono sempre i liberali a inglobare nei Listoni elettorali [i famigerati “Blocchi nazionali”] e a portare i primi 35 fascisti nelle aule parlamentari; furono loro a sostenere il primo governo Mussolini. […] Ma più in generale fu la cultura liberale a lasciarsi attrarre dalla soluzione ‘forte’ […] Da Amendola ad Albertini, da Gobetti a Salvemini, molti uomini di profonda e sincera fede democratica ritennero così marcia la democrazia parlamentare giolittiana da preferirle l’azzardo della soluzione fascista”.
Mussolini gelò gli alleati tenendo per sé i ministeri di Interni ed Esteri, e affidando a fascisti quelli di Finanze, Giustizia e Terre liberate
Sappiamo che mal gliene incolse. Giovanni Amendola, l’avvocato liberale padre del futuro leader comunista Giorgio, dopo la marcia su Roma del 1922 aveva invitato per “carità di patria e senso della responsabilità” a stendere su quel fatto “il velo dell’oblio” e a “considerare oggi il governo [Mussolini] di fronte ai suoi compiti, augurandogli la volontà, la capacità e la possibilità di fare tutto quel bene di cui l’Italia ha bisogno”. Costretto presto a ricredersi avrebbe pagato con la vita quella generosa illusione. Fu assassinato dai fascisti, così come il “socialista liberale” Piero Gobetti. Luigi Albertini, il direttore che aveva fatto grande il Corriere della Sera, e che aveva fornito a Mussolini l’auto per recarsi in Stazione centrale a Milano a prendere il vagone letto col quale avrebbe “marciato” su Roma, finì col perdere anche il suo giornale.
In molti erano propensi a dare a Mussolini una chance. Cullandosi nella speranza che l’esperienza di governo, la tutela di forze più moderate e ragionevoli, le costrizioni istituzionali, le necessità della Realpolitik internazionale avrebbero addolcito, addomesticato il capo del fascismo violento. Un po’ di maretta ci fu solo sulla lista dei ministri. Quando Mussolini, smentendo le pie speranze degli alleati, li gelò tenendo per sé Interni ed Esteri, e affidando a fascisti Finanze, Giustizia e Terre liberate. Cominciarono coll’andargli dietro nel votare provvedimenti che lo aiutavano a sdebitarsi con aspettative diffuse di ordine e tranquillità, con gli interessi terra terra di chi l’aveva appoggiato e finanziato (la prima legge votata dal governo Mussolini era stata l’abolizione della nominatività dei titoli azionari, una specie di flat tax con altro nome). Fino al via libera alla riforma elettorale. E poi, caspita, era solo un maggioritario rinforzato, una riforma “tecnica”, mica era l’elezione diretta del capo dello stato!
I liberali non si sarebbero ripresi per vent’anni dalla batosta. Benedetto Croce fece fatica a far dimenticare che, ancora dopo l’assassinio di Matteotti, auspicava la tenuta del governo Mussolini, con l’argomento che “[Il fascismo] non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono […] col consenso e tra gli applausi della nazione”. I popolari, i padri della futura Democrazia cristiana, sarebbero stati segati dal Vaticano, allora interessato più alla riconciliazione tra stato e Chiesa, sventolatagli sotto il naso da Mussolini, che ai propri politici democratici. Filippo Turati avrebbe dovuto riparare a Parigi, dove avrebbe fondato la Concentrazione antifascista che riuniva finalmente – ma a frittata ormai fatta – tutta l’opposizione laica al regime, con la sola eccezione dei comunisti che si erano autoesclusi (l’Internazionale bollava ancora i socialisti come “socialfascisti”). Gramsci, che aveva intuito già molto tempo prima che “tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la ‘superstizione’, la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio”, avrebbe passato il resto della vita a meditare in carcere sugli errori della sua sinistra.
Eppure Mussolini era stato sconfitto alle elezioni, col proporzionale, del ’19. Alle amministrative del ’20 i fascisti non si erano presentati
Un altro libro fresco di stampa, ancora solo in francese per Armand Colin, Mussolini “Un homme a nous”. La France et la marche sur Rome, di Alberto Toscano, grande esperto e collezionista di giornali d’epoca, parla dell’accoglienza che il susseguirsi di elezioni e l’arrivo dei fascisti al governo ebbe sulla stampa francese. Curiosità, attesa, qualche (rara) apprensione (“Sarà garantita la continuità della politica estera?”, uno dei titoli ricorrenti), beneficio del dubbio, anzi simpatia per Mussolini (finalmente “uno dei nostri”, “il Bonaparte italiano”, “volevano il governo forte, eccoli accontentati”).
Mussolini era stato il grande sconfitto delle elezioni col proporzionale del 1919. Era capolista a Milano. La lista fascista, contrassegnata dal “fascio dei littori”, si chiamava allora Blocco democratico. Ottenne l’1,5 per cento. Alle elezioni amministrative del 1920 non si erano nemmeno presentati con una lista propria. “Noi non abbiamo nemmeno la speranza di avere una minoranza”, aveva scritto Mussolini sul suo Popolo d’Italia. Li davano per morti e sepolti. Ma li aveva sdoganati Giolitti, imbarcandoli nel suo Blocco nazionale. Alle politiche del 1921 il Blocco liberale, radicale, democratico, socialista riformista, fascista e delle associazioni combattentistiche si affermò col 47,1 per cento sui blocchi socialista e comunista (29,3 per cento) e popolare (20,4 per cento). Notare la somma: si fossero presentati uniti avrebbero vinto loro. Votavano solo gli uomini. Si era astenuto il 41,61 per cento degli aventi diritto al voto (quasi una percentuale da politiche del 2022). E’ grazie a questo sdoganamento del ’21 che il Mussolini della marcia su Roma può contare su 35 deputati su un totale di 535. Ne aveva di strada da percorrere prima di conquistare nel 1924 la maggioranza assoluta. Il “listone” nazionale dominato dai fascisti il 6 aprile 1924 ottenne il 64,9 per cento e 374 seggi su 535. Non gli serviva neanche più la legge Acerbo.
Sono un appassionato di tabelle dei risultati elettorali. Dicono in genere più delle chiacchiere. Mi piacerebbe che, oltre alle percentuali, che non la dicono ancora tutta, riportassero anche il numero dei voti assoluti e i numeri dei flussi rispetto alle tornate precedenti. Pieno di tabelle elettorali esaustive è un altro libro appena uscito per Bollati Boringhieri, Il collasso di una democrazia di Federico Fornaro, sottotitolo L’ascesa al potere di Mussolini (1919-1922). Non se ne vedono spesso nei libri di storia. Evidentemente sono considerate noiose, poco attraenti per il lettore, rompono la fiction.
Qualche anno fa, alla vigilia di un’altra elezione politica in Italia, avevo pubblicato per Feltrinelli un saggio: Sindrome 1933. Il 1933 è l’anno in cui, a gennaio, venne fatto cancelliere Adolf Hitler. Vi si ricorda che, contrariamente a quel che ci suggerirebbe vagamente la memoria, Hitler non andò al potere con un colpo di stato. Un capitolo è intitolato “L’inferno è lastricato di elezioni”. Riporta i numeri delle elezioni anticipate che seguivano ogni crisi di governo. Nella Repubblica di Weimar si votava democraticamente, col proporzionale puro, con una pletora di liste (avevano tanti simboli quanti quelli della scheda che abbiamo appena deposto nelle urne). Un esempio splendente di democrazia per tutta l’Europa. Il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, poi meglio noto come nazista, aveva avuto alle politiche immediatamente precedenti il 33 per cento. Era il primo partito. Ma da solo non avrebbe avuto alcun titolo a governare.
Purtroppo non si vedono spesso nei libri di storia le tabelle dei risultati elettorali. Evidentemente sono considerate noiose, rompono la fiction
Hitler fu sdoganato dai centristi, convinti di poterlo manovrare, tenere a freno. Il conservatore cattolico von Ribbentrop aveva fatto carte false perché il presidente Hindenburg, sino a quel momento assolutamente contrario, lo nominasse cancelliere. Hindenburg, vecchio e stanco, fu convinto, qualcuno dice subornato, dai suoi cattivi consiglieri. Poco dopo morì e lasciò il campo libero a Hitler, che cumulò la carica di presidente della Repubblica a quella di cancelliere, senza dover nemmeno cambiare la Costituzione. Il conservatore ultrà e magnate della carta stampata Hugenberg aveva fatto qualche bizza. Ma per ottenere più ministeri. Poi si era anche lui volenterosamente associato al governo. Era stato lui, non Hitler, a proporre, nella prima riunione del Consiglio dei ministri, la messa al bando dei socialdemocratici, oltre che dei comunisti. A Hitler, che esordì come moderato, era parso in quel momento eccessivo. I suoi alleati nel governo non avevano fiatato, anzi erano stati loro a sollecitare i pieni poteri dopo l’incendio del Reichstag. Non avevano fiatato i cattolici del Zentrum, che pure avevano rifiutato di prendere parte al suo governo. Tutti quanti sarebbero stati ricompensati a breve con l’emarginazione totale.
Con mia sorpresa, Sindrome 1933 ha avuto un lettore particolarmente appassionato. Continua a citarlo, come esempio di come siano pericolosi i populismi, e di come anche una democrazia consolidata possa sbandare per via elettorale. E’ Papa Francesco. La prima volta l’aveva menzionato ricevendo nell’ottobre 2020 il premier socialista spagnolo Pedro Sánchez. Mancavano poche settimane alle elezioni americane in cui, persa la Casa Bianca nelle urne, Donald Trump avrebbe tentato di riprendersela con l’assalto al Congresso. Ha continuato imperterrito in diverse occasioni successive. A parte il mio comprensibile peccato personale di orgoglio e superbia per essere divenuto il giornalista e scrittore più citato dal Papa, mi sono chiesto il perché di tanta considerazione per il libro di un giornalista di sinistra (la prima volta mi definì “intellettuale italiano del Partito comunista”, con evidente riferimento al fatto che ero stato una firma storica dell’Unità”), e per giunta ebreo. L’ha fatto ogni volta nel contesto di impegnative considerazioni di alta politica. (Nell’incontro con Sánchez aveva insistito su “la politica come la forma più alta di carità”). L’ultima volta ci è tornato nella conversazione coi giornalisti a bordo dell’aereo che lo riportava dal viaggio a Nur Sultan (Alma Ati). Per combinazione, l’ha fatto anche stavolta quasi alla vigilia una scadenza elettorale: le politiche italiane appena concluse. Chissà se il Papa mi legge anche sul Foglio.