il saggio
Uno spettro si aggira nelle pagine dei libri: lo spettro della working class
Dopo i suoi romanzi proletari, Alberto Prunetti descrive in un pamphlet di analisi feroce e divertente il classismo e il voyeurismo con cui la classe operaia viene descritta dagli intellettuali d'oggi
"Bisogna fare i conti col fatto che l’abolizione delle distinzioni di classe implica l’abolizione di una parte di voi. Se mi rendo conto di questo mi rendo conto anche che non serve a nulla dare pacche sulle spalle a un proletario e dirgli che lui è una brava persona quanto me. Se voglio avere un rapporto reale con lui devo fare uno sforzo per cui molto probabilmente non sono pronto”. A scriverlo con la consueta capacità di guardare in faccia i fatti sgradevoli era il George Orwell delle inchieste sui minatori britannici. Tutto ciò è vero anche in letteratura. Alberto Prunetti, traduttore e autore della trilogia operaia Amianto, 108 Metri, Nel girone dei bestemmiatori, col suo nuovo saggio Non è un pranzo di gala (Minimum Fax) ambisce a fare da megafono alla voce d’uno spettro antico e nuovo che si aggira per le strade e nelle pagine dei libri, quello della working class “migrante e intersezionale, precaria, sfruttata e tutt’altro che morta: peccato per chi ci pensa in forma statica, come un gruppo di maschi attempati in tuta blu”.
Recentemente Walter Siti ha notato come l’ala riformista, quantomeno parlamentare, si sia spesso ridotta a una guerra di parole e non di cose; per Prunetti il conflitto sociale è tanto di cose che di parole, più concrete e sporche di quelle che la classe media – anche dei lettori – appone come un esorcismo rassicurante alle proprie buone intenzioni. Questo perché “una classe per esistere ha bisogno di crearsi un proprio immaginario” e “come ogni spettro che si rispetti, nonostante i vostri esorcismi, ha intenzione di prendersi la fottuta casa”. Al pari dei suoi romanzi, pure in questo saggio Prunetti non vuole scrivere a nome di tutti e non vuole nemmeno piacere a tutti.
Del resto i suoi riferimenti non comprendono solo Bianciardi e Rodari ma anche il don Milani che dovette espungere da Lettera a una professoressa tutti i vocativi rivolti all’interlocutrice del titolo. Ci sono lettori e scrittori che sono parte del problema stesso, o perché non lo vedono, o perché credono lo si possa risolvere e assorbire in una retorica che hanno a loro volta mutuato dall’alfabeto classista: “Finché a parlare dei poveri saranno gli illuminati, pronti a salvarli, non andremo da nessuna parte. Non si tratta di educare la working class, o di salvarla da sé stessa, come le dame borghesi che lottavano contro l’alcolismo nell’Ottocento. Come se gli intellettuali progressisti avessero già le ricette pronte da servire ai poveri, imbeccandoli alla mensa dell’ideologia come se fossimo a quella della Caritas.”
Per questo l’indagine di Prunetti, frutto di molti anni di riflessioni, interviste, interventi, comprende certamente una riflessione sulla letteratura della e non “sulla” classe lavoratrice, proletaria, precaria, da Lawrence alle sex workers di oggi, ma anche una disamina senza sconti ai pregiudizi compiaciuti di tanta narrativa contemporanea “impegnata”, che, ancora una volta, pretende di cavare narrativa da vite ed esperienze che non conosce affatto, e sulle quali proietta solo l’ennesima e spesso neanche troppo sottile riproposizione di vecchi stereotipi. Feroce e divertente è l’analisi – che si dettaglia anche nelle occorrenze linguistiche – del premiato Acciaio di Avallone, dove si passa da strafalcioni che farebbero alzare le mani a qualsiasi toscano (papà al posto di babbo) alla costante sessualizzazione voyeuristica degli operai, eco d’un futurismo pornografico d’accademia.
Basti pensare a una ragazza benestante del romanzo che a differenza delle figlie degli operai non aveva mai rischiato di farsi alzare la gonna a undici anni: “Ci mancherebbe, queste cose le fanno solo gli operai e le loro figlie deprivate esistenzialmente che pensano sia normale non andare in vacanza. Infatti Harvey Weinstein è un saldatore polacco della Lucchini, mica un violentatore seriale di Hollywood”. Rabbia, amarezza, contrapposizione, ma soprattutto Prunetti esorta chi, come lui, ha voluto raccontare e raccontarsi nella fatica quotidiana della propria esistenza in un mondo ostile anche dal punto di vista editoriale, a consumare le scorie del vittimismo e dello “storytelling dei cazzi propri”, altro ghetto nel quale si può finire imprigionati, liberarsi dalle agiografie consolatorie, esporre le zone d’ombra e le proprie stesse ambiguità e connivenze, non aver paura di legare gli opposti con l’umorismo, il surreale, la contaminazione. “Per scrivere la realtà bisogna talvolta scrivere contro la realtà”.