lo scrittore
La farfalle di Nabokov
Erano la sua ispirazione, lo portavano a creare con la sua "terza vista" (l'immaginazione) le sue ninfette: a cominciare da “Mašen’ka”, il suo romanzo d’esordio oggi di nuovo in libreria, per continuare con l'arcinota Lolita
C’è sempre una farfalla che svolazza nelle pagine di Vladimir Nabokov. È alle prese con farfalle anche in varie fotografie, sia che, in buffa tenuta da cacciatore di lepidotteri, si aggiri per prati e per boschi col retino, sia che lo si veda seduto al tavolo in giacca e cravatta nell’atto di studiarle. Nei primi anni Quaranta, quando arrivò negli Stati Uniti, si manteneva occupandosi della collezione di farfalle nel Museo di Zoologia comparata all’Università di Harvard e molti anni dopo, tornato in Europa, avrebbe dichiarato di considerare gli anni di Harvard “i più belli ed emozionanti della mia vita adulta”. In una lettera alla sorella Elena del 16 novembre del ’45 esprime un entusiasmo addirittura erotico per l’oggetto del suo studio: “Io sono custode di queste collezioni assolutamente favolose. Abbiamo farfalle di tutte le parti del mondo… Lavoro alla mia ricerca personale e negli ultimi due anni ho pubblicato uno studio sulla classificazione dei licenidi americani basato sulla struttura dei loro organi genitali (provvisti di minuscoli uncini scultorei, denti, speroni visibili solo al microscopio) di cui faccio uno schizzo per mezzo di diverse straordinarie apparecchiature, varianti della lanterna magica. (…) Sapere che nessuno prima di te ha visto l’organo che tu stai esaminando, individuare parentele che nessuno prima di te aveva ipotizzato, immergerti nel meraviglioso mondo cristallino del microscopio, dove regna il silenzio… tutto ciò è talmente seducente che non so descriverlo…”.
In realtà l’ha descritto benissimo, in puro stile nabokoviano, e al lettore attento non sfugge quel sottile rapporto che l’eccitazione entomologica deve aver avuto nella creazione delle sue ninfette, anche quelle precedenti e successive alla ninfetta per eccellenza, Lolita. È già una ninfetta (prima che questo fortunato appellativo s’imponesse proprio grazie a Nabokov) la Mašen’ka dell’omonimo romanzo, del 1926 – riproposto adesso da Adelphi nella splendida traduzione di Franca Pece – e ispirata a un primo amore perduto, Valentina Shulgin (ribattezzata Tamara nell’autobiografia Parla, ricordo e con altri nomi altrove). Perduta, da esule qual era dopo il 1917, era la casa di San Pietroburgo e l’adorata proprietà di campagna a Vyra, dove il viale di querce, che da piccolo percorreva dando la mano ai genitori, rappresentava per lui “l’arteria principale dell’infanzia”. Perduta la patria tutta e, cosa persino peggiore, la sua lingua, il russo. Per trovare rifugio prima a Cambridge – dove completa gli studi e perfeziona un inglese già sontuoso che conosceva fin da bambino – poi a Berlino, poi a Parigi e in America. Per tornare alla fine in Europa, a Montreux, sul lago Lemano o di Ginevra che dir si voglia, ed essere ormai considerato un grande scrittore americano nato altrove.
Come abbia fatto a compiere questo miracolo, che riverbera la sua luce dalle opere in russo a quelle in inglese, lo racconta proprio in Mašen’ka, suo romanzo d’esordio a ventisette anni, dopo una ricca produzione poetica. Il miracoloso segreto sta nelle pagine finali, quando il protagonista Ganin capisce improvvisamente, per un’ispirazione che gli ha portato l’aria si direbbe, mentre guarda lavorare gli operai sulle impalcature di un edificio in costruzione, che non deve rivedere la Mašen’ka diventata ormai donna e ignara che lui la stia aspettando. Deve rompere con il passato, radicalmente. Definitivamente. E da qui ricominciare una nuova vita.
Deve mettersi a costruire anche lui qualcos’altro, qualcosa di completamente nuovo. Perciò Ganin/Vladimir smette di rimpiangere l’amore vissuto nella terra che gli è preclusa e chiama un taxi e si fa portare a un treno che va verso la frontiera, “e al di là di quella c’era la Francia, la Provenza, e poi… il mare”. Un nuovo paese, una nuova lingua che nell’approfondito saggio Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio, uscito quest’estate da Adelphi, Azar Nafisi – l’autrice del giustamente apprezzatissimo Leggere Lolita a Teheran – ha buon gioco di interpretare come riuscito esperimento linguistico: “L’inglese di Lolita è una realizzazione straordinaria, palesemente influenzata dal russo – una lingua latente che illumina dall’interno le pagine visibili del romanzo” (la traduzione è di Valeria Gattei). Il futuro per il giovane Nabokov è dunque l’inedita impresa letteraria di libri in cui il realismo è solo un appoggio quasi insignificante perché centrale sarà (come già nei libri in russo, ma ancora di più) quella che Van, il protagonista di Ada o ardore, definirà “terza vista” ovvero l’immaginazione di un autore “capace come per magia, di cogliere in ogni cosa il dettaglio peculiare” e tradurlo in parole. Ma quali parole? Le uniche possibili, e non altre, perché qualsiasi altra stonerebbe.
Quando parte per gli States, appena prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale, si è sposato con Vera Slonim, Verochka la chiama lui, la donna che amava “selvaggiamente, infinitamente, fino a svenirne”, come si legge in Véra, la biografia a lei dedicata da Stacy Schiff e tradotta da Luca Scarlini per Fandango una ventina di anni fa. Una moglie necessaria, Vera, che abbandona le ambizioni personali per dedicarsi completamente a lui e al suo lavoro di scrittore. Ricopia a macchina i testi scritti a mano dal marito, lo difende dai seccatori, intrattiene rapporti con gli editori, lo aiuta nelle traduzioni, dice la sua su certi snodi narrativi. Senza mai comparire eppure sempre presente, attenta e inflessibile. Dura abbastanza da sconfiggere le rivali di cui quell’uomo bellissimo e fragile che ha sposato s’innamorerà nel corso degli anni (“con te sono stato felice e ora sono infelice con un’altra”: quante volte le avrà detto queste parole che troviamo ne La vera vita di Sebastian Knight?).
Gli dà un figlio, Dmitri, per cui entrambi per tutta la vita stravedono. E, quando sarà cresciuto, Dmitri diventerà il terzo punto fermo dell’“impresa Nabokov”. Ma questo è un racconto nel racconto che ha analizzato compiutamente la studiosa Chiara Montini in Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, uscito da Mimesis nel giugno scorso e passato ingiustamente inosservato. È invece un saggio che, alla luce di carte che erano fin qui secretate, conservate negli archivi della Houghton Library di Harvard – lettere, appunti, diari, brogliacci vari – getta nuova luce sul complesso rapporto familiare, ammirevole da un lato, decisamente perverso dall’altro, che Vladimir, Vera e Dmitri hanno stretto intorno al genio del capofamiglia e alla sua grande opera arrivando, grazie alle molte lingue che tutti e tre parlavano, a un controllo persecutorio, quasi paranoico sulle molte traduzioni che si andavano moltiplicando nel mondo.
Mentre leggevo questo libro originale e interessantissimo, in cui la figura di Dmitri finisce per prevalere sul padre, mi veniva in mente il mio incontro con lui nell’ottobre del 1989, a Montreux, al Palace Hotel dove la famiglia Nabokov si era istallata al ritorno in Europa dagli Stati Uniti, in una suite all’ultimo piano (era ancora possibile farlo negli anni Sessanta, oggi sarebbe economicamente impraticabile). Si sentivano troppo sradicati i Nabokov per mettere su di nuovo una casa. Così mi raccontò Dmitri, un uomo altissimo e molto magro di cinquantacinque anni, che conservava il fascino aristocratico dei genitori. Vladimir era morto nel ’77 in un ospedale di Losanna, “per un’infezione postoperatoria” ovvero “un errore dei medici che lo avevano in cura” mi disse il figlio rimestando un’antica rabbia che veniva a offuscargli lo sguardo celeste.
Era stato cantante lirico, aspirante scrittore, spericolato alpinista, collezionista di Ferrari e corridore automobilistico. Uno “scapestrato” che i genitori avevano sempre protetto e viziato fino a farne un eterno bambino. Ne avevo la prova, a casa sua, dove mi aveva invitata per un caffè. Dei binari correvano dalla cucina al salotto e sui binari faceva ciuf-ciuf un trenino elettrico di grosse proporzioni (arrivava in altezza ai braccioli del divano) e il caffè sistemato su un vassoio sul treno, veniva portato agli ospiti in questa maniera decisamente inconsueta, ma che lo divertiva moltissimo. Costretto da una decina d’anni a occuparsi dell’impegnativa eredità paterna, lo faceva con competente ma invasiva e a volte inaccettabile intromissione nel lavoro editoriale dei tanti paesi di cui parlava la lingua (fra cui l’italiano).
La madre, malata di Parkinson, non era più in grado di controllare e frenare, come aveva sempre fatto in molte occasioni difficili, sia lui sia il marito. E mentre continuavamo l’intervista in quella sua casa di Montreux, stranamente povera di arredi significativi, di mobili ereditati, fotografie, ricordi o cose cos, volle farmi vedere alcuni filmati sul padre. E intanto raccontava che uomo fosse Vladimir: “Chi non lo ha conosciuto bene, lo considerava, a causa del suo costante humour e della necessità di difendere la sua privacy, una persona fredda e altera. Ma è una leggenda: c’era anche una parte affettuosa, delicata e appassionata del suo carattere. Era un uomo di enorme sensibilità e generosità e, come fa dire a John Shade in Fuoco pallido, anche la sua è una poetica della pietà”.
Mi mostrò il leggio su cui al mattino Vladimir Nabokov si metteva al lavoro. “Cominciava la sua giornata in piedi, poi si stancava e passava a sedersi in poltrona. Aveva un’asse fatta a mano che appoggiava ai braccioli. Poi si stendeva sul letto e scriveva appoggiato al cuscino. Scriveva a mano, su tante piccole schede. Questo gli permetteva di spostare facilmente interi blocchi di righe da un punto all’altro del libro che stava preparando. Una specie di computer rudimentale e casalingo”. A Dmitri dava fastidio, come al padre, ciò che definiva il “monololitismo”. Cioè l’identificare l’opera nabokoviana con quell’unico fortunatissimo romanzo. Anche se Vladimir stesso considerava Lolita il suo preferito. “È sempre stato consapevole di aver creato con quel romanzo un’opera senza precedenti, dall’eccezionale ricchezza linguistica”. “Lolita è un’opera tragica”, sosteneva Nabokov, e “il tragico e l’osceno si escludono a vicenda”.
E poi ci sono sempre di mezzo le farfalle: non viene da loro anche l’idea di definire ninfette certe ragazzine “fra i nove e i quattordici anni” che abbiano – si legge in Lolita – una particolare “grazia arcana, il fascino elusivo, mutevole, insidioso e straziante” che altre coetanee non hanno? E non si chiama ninfa quello stadio particolare degli insetti, quando stanno per abbandonare la giovinezza per diventare adulti? “La ninfa – dice la zoologia – è morfologicamente simile all’adulto, dal quale differisce in genere per le minori dimensioni”. La ninfetta non è necessariamente la più bella in un gruppo di bambine-adolescenti, ma quella, spesso a propria insaputa – capace di sprigionare il fascino ninfesco e di trastullarsi con una forma stregata del tempo, per ammaliare uomini molto più grandi di lei. Come Humbert Humbert, l’affascinante e perverso protagonista del celebre romanzo che accuserà la ragazzina di averlo sedotto: “La mia vita fu maneggiata dalla piccola Lo in modo energico e sbrigativo, come fosse un aggeggio privo di sensibilità del tutto separato da me”, grazie ovviamente “al periglioso sortilegio delle ninfette”. Un sortilegio che appartiene anche a Ada nell’ultimo grande romanzo, il più lungo e ambizioso, Ada o ardore del 1969. Qui il sortilegio avvolge un fratello e una sorella che non sanno di esserlo, ma sono innamorati l’uno dell’altra. E il sortilegio più importante lo fa lo scrittore con i suoi giochi di luce e di parole, le sue escursioni fra le età diverse dei protagonisti, dalla giovinezza alla vecchiaia, il suo piano inclinato fra immaginazione e realtà, la sua ironia. Tanto per sbilanciare il lettore e farlo godere, non con gli imprevisti della trama, ma con la loro musica, con il loro sapore e luminosità.
Mentre chiacchieravamo di Ada e di Lolita, e del mio adorato Pnin, e di quanto Nabokov non amasse i lieto fine che considerava roba per maestrine, ma almeno con Pnin era stato buono: aveva salvato la zuppiera tanto cara al personaggio, la preziosa zuppiera che rischiava di rompersi nell’acqua saponata verso la fine del libro; e poi della sua ineguagliabile passione per Gogol (se leggendo romanzi siete interessati alla trama, ai fatti, ai “messaggi”, state lontani da Gogol, diceva); e del nome di una farfalla che in Fuoco pallido si posa sulla manica di Shade, l’Ammirabile Rossa, la sua preferita, e di tanto altro ancora… il videoregistratore faceva scorrere le immagini di un Vladimir Nabokov intervistato a Montreux nel ’66 da una rete televisiva americana. Aveva in quel filmato un’aria timida, schiva, gentile. A un certo punto indicava il lago dicendo: “Sembra argento liquido”. Subito aggiungendo malinconico: “Sono spaesato dovunque e sempre. È il mio stato”.