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Il foglio del weekend

Lo stupro che non c'era. La ricerca smaschera la farsa su Chaucer violentatore

Siegmund Ginzberg

L'autore dei Canterbury Tales è sempre stato innocente. Il Medioevo infatti era sicuramente un periodo di violenza sulle donne, ma anche della sua condanna. Una vicenda che appare familiare

In uno dei Racconti di Canterbury, quello narrato dalla Donna di Bath, un cavaliere di Re Artù, giovane e forte, sorprende una donzella che esce nuda dal fiume in cui faceva il bagno. Perde la testa e ne approfitta. “Lei nolente”, precisa il verso. Lei lo denuncia. Il re lo condanna a morte, perché è disdicevole all’onore dei suoi cavalieri che si suppone debbano proteggere le donne. Saranno le donne a dargli una lezione. E a salvarlo. A differenza dell’antichità classica, dove a dare l’esempio sono gli dèi – tutti violentatori quelli delle Metamorfosi di Ovidio – il Medioevo pratica ma non condona la violenza contro le donne.

 

E poi si dice la maldicenza. Su Geoffrey Chaucer, il padre della letteratura inglese, se ne sono dette di tutti i colori. Già ai suoi tempi. E poi fino ai giorni nostri. Apparteneva alle fazione politica che faceva capo al Re Riccardo II, poi caduto in disgrazia. Gli era stata affidata l’esazione dei dazi doganali a Londra, cosa che aveva arricchito i suoi amici, e forse anche lui. Era misogino (cosa comune nella cultura del Medioevo) e pure antisemita (anche questo abbastanza comune: lo era anche Shakespeare, un paio di secoli dopo). Più di recente gli è stato pure rinfacciato di essere uno stupratore. Almeno da quest’ultima infamante accusa viene ora scagionato con formula piena. Da nuovi documenti ritrovati e pubblicati da due ricercatori inglesi. Il sesso non c’entra per nulla. Era una causa di lavoro. Intentata a una collaboratrice domestica per abbandono del posto. E al suo novo datore di lavoro, il nostro poeta, per aver violato la legge assumendola lui. 

 

L’accusa – più esatto dire il sospetto – di violenza carnale nasce da un documento giudiziario, una liberatoria, in cui Cecily Chaumpaigne, figlia di un fornaio di Londra, libera Geoffrey Chaucer da ogni responsabilità collegata al suo raptus (“omnimoda actiones, tam de raptu meo”). Raptus nel linguaggio legale del tempo vuol dire violenza sessuale, o anche ratto, rapimento. A peggiorare le cose erano emerse, in tempi più recenti, prove di pagamenti effettuati in favore della ragazza. Qualcuno, suggestionato forse da fatto giudiziario nostrano, quello che ruota attorno a prebende e benefit alle Olgettine, aveva subito pensato male. Siamo in tempi #metoo. Normale che si dia addosso ad un presunto violentatore. Specie se famoso. E che lo faccia anche la critica letteraria. Dando per scontato l’infamante malefatta, le femministe avevano sbranato il presunto colpevole.

 

E certo a giustificarlo non poteva bastare che si trattasse di una personalità del Medioevo, dell’autore dei Canterbury Tales. Poco c’è mancato che invitassero a cancellarlo dai curriculum di studi e dai programmi scolastici. Sarebbe stato come se da noi si proibisse lo studio di Dante perché era fedifrago, o di Boccaccio – il modello di Chaucer, anche se è dubbio che conoscesse direttamente il Decameron – perché nei suoi racconti ci sono scene offensive nei confronti delle donne, o di Machiavelli perché scrive cose disgustosamente antifemministe nelle lettere in cui vanta – sarebbe più esatto dire schernisce sé stesso – sulle proprie disavventure sessuali nelle lettere all’amico Giuseppe Vettori. 

 

Sebastian Sobiecki, professore di letteratura medievale, aveva già ipotizzato qualche anno fa che la giovane Cecilia, anziché violentata da un uomo molto più anziano di lei, fosse stata rapita nel senso di “portata via” per darla in sposa al giovane pupillo di Chaucer. A quei tempi succedeva. I matrimoni erano sempre combinati. Poi si era rivolto al direttore dei British National Archives, Euan Roger, per vedere se dalle profondità della miniera di sale nel Cheshire in cui vengono custoditi documenti giudiziari a cui nessuno accede da secoli, emergesse qualcosa di nuovo sulla vicenda. E bingo! Da un pacco di antiche pergamene, foglietti sparsi, strisce di carta raccolte alla rinfusa e cucite insieme come si usava una volta è emerso qualcosa di inaspettato, mai consultato. La documentazione, anche fotografica, che i due studiosi forniscono sull’ultimo numero della Chaucer Review è impressionante. A riconoscerlo sono anche tre studiose femministe chiamate a commentare lo studio, e che in precedenza avevano dato addosso a Chaucer.

 

Si tratta di una chiamata in giudizio, di una sorta di avviso di garanzia con cui si ingiungeva di presentarsi il giorno tale presso i giudici reali, pena l’arresto o altre più gravi sanzioni. La sorpresa è che non è indirizzato al solo Chaucer, bensì a Chaucer e a Cecily Chaumpaigne insieme. I due sono chiamati a rispondere dell’accusa rivolta loro da tale Thomas Staundon. Il querelante quindi non è la ragazza, che risulta invece co-querelata. Ci sarà un rinvio, in attesa che la ragazza, la quale “nichil habet”, non ha mezzi, si procuri dei difensori. Cosa che farà, come attestato da una altro documento, probabilmente con l’aiuto di Chaucer. Un raffronto con altri documenti dell’epoca conferma che il sesso non c’entra. È invece un conflitto, come dire, sindacale. La ragazza è accusata di aver abbandonato il suo datore di lavoro, e quindi di aver violato lo “Statuto dei lavoratori” allora in vigore. Chaucer probabilmente di averla aiutata, oltre che di averla assunta illegalmente. Il raptus è in questo caso l’aver portato via la ragazza al suo precedente padrone. Non si tratta di un procedimento per violenza sessuale, ma di una causa di lavoro. 

 

Non si sa che rapporti ci fossero tra questo Staundon e Chaucer. Se si conoscessero, se fossero dei pari grado o meno, se tra i due ci fosse ruggine, o magari rivalità politica. Non si dice come sia avvenuto il raptus, se la ragazza sia stata davvero fisicamente portata via, o se semplicemente sia stata aiutata ad andarsene. È vero che i difensori dei due vengono nominati perché prestino la loro opera controbattendo accuse di “trespass” e “contempt”, cioè violazione (ma non necessariamente di domicilio) e offesa (non necessariamente fisica). Di processi del genere ce ne furono a bizzeffe. In altri procedimenti giudiziari del genere, per “rapimento” di servitori ad un precedente padrone, viene precisato che violazione e offesa sarebbero avvenuti “vi et armis”, cioè con la forza e a mano armata. Qui potrebbe trattarsi semplicemente di violazione ed offesa alla legge. L’unica cosa su cui non c’è alcun dubbio è che la legge in questione è lo Statute of laborers. 

 

L’avevano chiamata Statuto dei lavoratori. Ma era l’esatto contrario di quello che con questa espressione intendiamo ai giorni nostri. Non difendeva i lavoratori. Li assoggettava a servire i loro padroni, senza alcuna libertà di cambiare datore di lavoro e senza poter pretendere aumenti di paga. L’avevano inventato nel 1351, subito dopo la Peste nera che aveva devastato tutta l’Europa. Molti lavoratori dipendenti erano stati falciati dalla pandemia. Molti altri avevano lasciato le città e trovato rifugio nelle campagne. Era successo un po’ quel che succede dopo tutte le grandi epidemie. Sta succedendo anche dopo il Covid. Non si trovava più manodopera. E quella che si trovava non era più disposta a servire a poco prezzo. Erano aumentati i salari. E non bastava più nemmeno l’inflazione a limarli. Nelle parti d’Europa con l’economia più avanzata (il lettore non ci crederà, ma a quei tempi era l’Italia), si fissarono tetti ai salari, e ci furono sommosse epocali, represse nel sangue. In Inghilterra la principale attività lavoratici era il servizio domestico. Si capisce che i signori, abituati a farsi servire in tutto e per tutto dai loro domestici, fossero sotto choc. Ne scrive ancora, decenni dopo, Daniel Defoe nel suo Diario dell’anno della peste. 

 

La legge emanata nel 1351 dal re Edoardo II e dall’arcivescovo di Canterbury esordisce notando che “siccome un gran numero di gente del popolo, e in special modo lavoratori e servitori, è morta causa la pestilenza, ora alcuni, vedendo le ristrettezze dei loro padroni (masters) e la scarsezza di servitori (servants), non vogliono più servire a meno che non ricevano paghe esorbitanti (excessive wages), e altri, piuttosto che guadagnarsi da vivere lavorando, preferiscono mendicare in ozio”. Pertanto, prosegue il sovrano, pensiamo sia opportuno ordinare: che ogni uomo o donna del nostro regno d’Inghilterra, che non abbia i mezzi per vivere del suo, di qualunque condizione egli sia, libera o servile, purché sia abile e di età inferiore ai sessanta anni, debba essere costretto a servire chi ha bisogno dei suoi servizi; e che debba ricevere solo i compensi che già aveva nell’anno in corso, e nei sei anni precedenti, […] e che i padroni dei quali erano già al servizio siano preferiti a tutti gli altri […]; e che se chiunque, uomo o donna, del quale si richiedono i servizi, rifiuti di farlo, e che ciò sia confermato da due testimoni degni di fede, dinanzi agli sceriffi, agli ufficiali giudiziari e agli agenti di polizia della città in cui risiedono […] siano immediatamente presi e mandati alla prigione più vicina, e lì restino in stretta custodia […]”.

 

Idem, si prescrivono pene severe “per i falciatori, e gli altri lavoratori […] i sellai, i conciatori, gli sbiancatori, i calzolai, i sarti, i fabbri, i muratori, i carpentieri, i carrettieri […] i pescivendoli, i camerieri, i facchini, i fornai, i birrai, i venditori di generi alimentari, e tutti gli altri lavoratori e artigiani […] che pretendano per i loro servizi più di quello che vengono pagati attualmente […]”. Quanto ai “molti accattoni abili che rifiutano di lavorare finché riescono a vivere di elemosine, dandosi all’ozio e al peccato, e a volte addirittura alle rapine e ad altri delitti”, viene fatta proibizione, “sotto pena di prigione, di dargli qualsiasi cosa sotto le sembianze della pietà e dell’elemosina, di modo che smettano di darsi al vizio e siano costretti a lavorare per vivere”. Insomma: niente libertà di scegliersi a chi prestare la propria opera, niente aumenti salariali, e niente reddito di cittadinanza. Lavori forzati e via andare. A quei tempi si andava per le spicce.

 

La causa intentata a Chaucer e alla Chaumpaigne finì lì. Un’annotazione a margine dice: “Non prosecutum”. Non si sa se sia stata raggiunta una composizione extragiudiziaria, sia stato pagato un risarcimento per la violazione del contratto, se così si può dire, oppure il querelante si sia messo il cuore in pace. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni. I patrocinanti della ragazza e del poeta erano principi del Foro, che non perdevano una causa, per giunta tutta Londra sapeva che Chaucer era ammanicato coi giudici che avrebbero dovuto gestire la causa in nome del re. 

 

Succedeva nel 1380. Chaucer di mestiere non faceva ancora il poeta. Faceva l’ispettore delle dogane al molo in cui veniva scaricata la lana. I dazi sulla lana fornivano da soli circa un terzo delle entrate totali del regno. Era un incarico molto redditizio. Sul commercio della lana giravano molti soldi, si potevano fare fortune immense. Chaucer era ben stipendiato, e godeva di un alloggio di servizio a titolo gratuito nella City. Non risulta che Chaucer si sia arricchito personalmente. Ma per dirla con George Lyman Kittredge, il massimo esperto di Chaucer nel Novecento, un controllore delle dogane tanto ingenuo da non accorgersi del traffico di influenza e delle tangenti che circolano attorno al suo mestiere sarebbe una contraddizione in termini, “davvero una mostruosità”. 

 

A un incarico del genere si accedeva – a quell’epoca s’intende, oggi è suppergiù lo stesso – per nomina politica. Il prestigio collegato alla carica comportava buoni rapporti con tutti i potenti, compresi i giudici e gli altri professionisti della giustizia. Chaucer era stato nominato da Riccardo II, dopo aver fatto lo scudiero a corte per il suo predecessore. Era indispensabile essere nelle grazie del sovrano e dei potenti di turno. Quelli che si arricchivano privatamente a spese del pubblico, a loro volta si sdebitavano col re mediante donazioni, o prestiti per finanziargli le guerre. L’Inghilterra era impegnata in una lunghissima, costosa e impopolare guerra con la Francia. È nota come Guerra dei cent’anni. In realtà nel durò 116. Riccardo III aveva ben pensato di sospendere la guerra, approfittando di una lettera rivoltagli da un soldato-intellettuale francese, Philippe de Mézières, in cui lo si invitava alla riconciliazione con la Francia e a impegnarsi invece in una crociata contro i Turchi.

 

Apriti cielo. La protesta travolse la fazione “pacifista”. Gli uomini del re, a cominciare dal potentissimo e ricchissimo sindaco di Londra Nicholas Brembre, furono travolti, accusati di tradimento, e di ogni sorta di malaffare. A nulla servì che, nell’intento di proteggerli, Riccardo II avesse emesso un proclama severissimo contro le calunnie. Molti finirono al patibolo. Alla fine anche il re avrebbe finito per perdere il trono.
Chaucer, assieme agli amici e ai protettori, nel 1386 perse il lavoro e il seggio in Parlamento. Fu la sua fortuna. Nei dodici anni passati a occuparsi di dogane (i maligni dicono a guardare dall’altra parte mentre Brembre e gli altri suoi amici si arricchivano), si dilettava di poesia a tempo perso. Riempiva ossessivamente tavolette di cera e pergamene. Disoccupato, prese la decisione di ritirarsi in campagna e dedicarsi solo a quello. E ne venne fuori quel capolavoro, quell’universo di racconti, narratori e ascoltatori nati dalla sua fantasia, quanto dalla vita, che sono i Canterbury Tales.

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