Una scena tratta dal film "Monte Verità" di Stefan Jäger

Quando sul Lago Maggione l'arte cercava l'armonia con la natura

Marinella Guatterini

Anno 1900: sul Monte Verità intellettuali e artisti fuggivano dalla civiltà per radunarsi in una delle più radicali, pionieristiche e allargate comunità utopiche, sociali e artistiche. Una mostra a Firenze

Back to Nature, ritorno alla natura: la prospettiva è allettante quanto nebulosa. Di che natura stiamo parlando? Di quella “cattiva” di cui ha scritto Antonio Gurrado nel luglio scorso, sul sito del Foglio, ripensando alla proiezione del magnifico film La Nature di Artavazd Pelechian, ultraottantenne regista armeno, capace di abbellire con una sicumera estetica purtroppo ben poco nota, mareggiate travolgenti, tornado da brivido, vulcani perniciosi e ghiacciai devastanti? Oppure alludiamo ai foschi presagi su cui si è soffermato Antonio Pascale, sempre su queste pagine, ma nel settembre appena trascorso, riportando l’opinione di climatologi sicuri che alluvioni come quelle avvenute nelle Marche saranno eventi con cui andremo a nozze (sic!) in un futuro non lontano? Per fortuna il testo Back to Nature ha un inequivocabile soprattitolo – Monte Verità – e sono queste due paroline magiche a riportarci non solo all’inizio del ’900 quando la natura, forse, non si era ancora del tutto ribellata contro la nostra irrispettosa incuria nei suoi confronti, ma nel cuore di una delle più radicali, pionieristiche e allargate comunità utopiche, sociali e artistiche di un tempo non così lontano: quella di Ascona sul lago Maggiore.

 

Da una mostra del fiorentino Museo Novecento, tra l’altro la prima sul tema dopo la rilevante esposizione del 1978 di Harald Szeemann, eminente storico e curatore d’arte svizzero, è nato un interessante e svelto volumetto Monte Verità. Back to Nature (Lindau, Torino, 24 euro. Curato da Nicoletta Mongini, Chiara Gatti e Sergio Risaliti che del museo di Piazza di Santa Maria Novella è il direttore, più altri esperti, il testo ci narra per capitoletti – storia, itinerari femminili, arte visiva, danza, architettura, paginette tratte dal catalogo della mostra di Szeemann, cronologia – di donne e uomini i cui nomi fanno girare la testa. Furono anarchici, letterati, artisti visivi, mistici orientali, occultisti, politici, scienziati, danzatori o aspiranti tali, teosofi e filosofi, psicanalisti, architetti, aristocratici ma anche poveri cristi. Riuscirono a sgusciare via da inurbamento, industrializzazione, egocentrismo, disparità sociali, repressione, militarismo – a loro avviso i danni della modernità – per un rifugio di benessere salutare e psichico: estivo, passeggero o duraturo.

 

Si potrebbe asserire che tutto ebbe inizio da sei giovani nordici con le loro valigie di cartone. La femminista Ida Hofmann, insegnante di pianoforte, e la sorella Jenny dal Montenegro, Henri Oedenkoven di Anversa, i fratelli Karl e Arthur (Gusto) Gräser dalla Transilvania, Lotte Hattemer, ribelle tedesca, imbevuti degli ideali della Lebensreform (riforma della vita) e desiderosi di stendere le membra al sole del sud, si innamorarono della “mediterraneità” svizzera, per loro già alquanto accaldata, per insediare una cooperativa “vegetabiliana”, ossia già vegana, che poi divenne  casa di cura e sanatorio.

 

In realtà l’insediamento dei sei giovani nordici non fu casuale. Tra il 1869 e 1874  l’anarchico russo Michail Bakunin si era stabilito a Locarno e di lì le sue idee libertarie e anti-istituzionali, irritanti per Marx e Lenin, si diffusero anche sulla “collina delle utopie”. Infatti nel 1904 vi giunse Raphael Friedeberg, medico e anarchico, e con lui  il principe Pëtr Kropotkin, cofondatori con Pierre-Joseph Proudhon e lo stesso Bakunin dell’anarchismo moderno, ma sin dal 1905 approdò anche una nuova schiera di convinti rivoluzionari: auspicavano che Ascona divenisse  una repubblica per tutti i fuoriusciti, i perseguitati e il sottoproletariato. Simili a quelle di muratori, le agili mani dei giovani nordici, tutto fuorché proletari, costruirono, già nel 1902, le prime abitazioni. Erano “capanne aria-luce, generalmente a vano unico, caratterizzate da materiali naturali, dal mobilio semplice ed essenziale e dalle numerose finestre per l’esposizione al sole”. Mancava la luce e l’acqua e Henri decise di portarle sul Monte e per di più di aprire la colonia a ospiti paganti. 

 

Per battezzare un vero e proprio sanatorio occorreva un ristorante e almeno una panetteria. Et voilà ecco che gli infaticabili giovani dai capelli lunghi e sciolti, vestiti con gli abiti “della riforma” in tessuti naturali, cotone o lino, senza cinture o corsetti che potessero intralciare anche il loro lavoro di agricoltori, costruirono una casa centrale per nutrire gli ospiti, senza carne, per carità, senza uova, formaggio, alcol, caffè e sale. Decisi a non toccare il vil denaro e propensi alla pratica del baratto, i fratelli Gräser abbandonarono la comunità con Jenny, la sorella di Ida, per rituffarsi in grotte e case immerse in un natura ancora più fagocitante. Tutto ciò spiega come le posizioni ideologiche dei fondatori di Monte Verità, per quanto equidistanti da capitalismo e comunismo, non fossero, né sarebbero mai state, anche in seguito, omogenee, tranne sulla romantico-anarchica Lebensreform, cugina stretta dell’americana Wilderness (il mito positivo della natura selvaggia) e ben lontana dai ritmi distratti e allegri della Belle Epoque, per far risorgere le forze genuine della vita contro lo scenario tossico delle ipocrisie borghesi, a favore della parità dei sessi, dell’escapismo anti-urbano, dello spirito cooperativistico, e dell’adozione di medicina naturale volta a guarire gli ospiti dai danni della civilizzazione.

 

Nella Casa Anatta, la penultima costruita con tutti i comfort per Ida e Henri nel frattempo diventati una coppia (attenzione, non sposata: i riformatori praticavano il “matrimonio per coscienza”), si disquisiva di teosofia – altro filone di pensiero ben presente nella comunità, di filosofia e meditazione, ascoltando al pianoforte l’eclettica Ida. Intanto gli ospiti, in specie prima della Grande guerra, aumentavano anche solo per curarsi e rilassarsi. Tra gli illustri artisti, guai a dimenticare Rainer Maria Rilke, Paul Klee o Hermann Hesse. Durante le sue passeggiate nei boschi, lo scrittore insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1946, strinse, tra l’altro, un rapporto con Gusto Gräser, personaggio riconoscibile nel romanzo Demian (1919), mentre l’opera Der Weltverbesserer (1910-1918) narra proprio dell’esperienza al Monte Verità. Se è facile immaginare Hesse a tu per tu nella grotta di Gusto o intento a godere degli effetti benefici dell’elioterapia, è da escludere la sua partecipazione alle danze all’aperto spesso praticate in costume adamitico, tanto che i frequentatori della colonia vennero battezzati Balabiott – che ballano nudi – dagli abitanti del borgo di Ascona.

 

L’attenzione  al corpo e alla danza fu uno degli aspetti peculiari di Monte Verità. A Bayreuth, Ida e Henri rimasero folgorati dalla danza libera di Isadora Duncan, diva a piedi nudi e abiti svolazzanti, e la invitarono a soggiornare sulla loro collina. Lei passò e se ne andò, tra l’altro proprio nel 1913, anno della prematura morte dei suoi due pargoletti, annegati nella Senna. Chi rimase fu invece l’ungherese Rudolf von Laban de Varalja, il maggior teorico della danza del primo ’900, uomo dall’immensa cultura su ogni tipo di movimento, e a ragione capace di proclamare  che “ogni uomo è un danzatore”. Un curioso filmato su Monte Verità mostra una carola di sorridenti fanciulle nude, ma con coroncine in testa, che sgambettano nella natura. L’immagine richiama La Danse , un ben noto quadro di Henri Matisse, ma l’antica ripresa rende l’insieme bucolico al quadrato. Forse erano i prodromi “à la Duncan” di un insegnamento assai più rigoroso, complesso e affascinante già basato da Laban su Zeit, Kraft und Raum (tempo, energia, spazio) e non certo precluso agli uomini.

 

Quando il teorico decise – dopo svariati soggiorni didattici ad Ascona, iniziati nel 1909 con Mary Wigman, poi eminente fondatrice dell’Ausdruckstanz o danza d’espressione, ma all’epoca sua assistente – di trasferire solo nei mesi estivi la sua Scuola di Monaco a Monte Verità, la collina incrementò i suoi ospiti, soprattutto femminili, come Katja Wulff o Suzanne Perrottet. La sua fama di fondatore di una nuova danza si corroborò soprattutto nel 1917 . Con lo spettacolo La festa del Sole , diviso in tre parti Il sole calante, I demoni della notte e Il sole vittorioso – di cui esistono testimonianze dirette in molti suoi testi – Laban, massone praticante legato al ramo ermetico dell’Ordo templi orientis, il Tempio d’Oriente,  non solo diede fondo ad un rito esoterico e paganeggiante, svoltosi dal tramonto all’alba, ma idealmente concluse la prima fase storica della vita di Monte Verità. La festa del sole ebbe una tale risonanza da far conoscere “la collina delle utopie” nel mondo. Così subito, nel 1918, giunsero Hugo Ball ed Emmy Hennings, i fondatori del leggendario Cabaret Voltaire di Zurigo, la culla del dadaismo con il pittore Jean Arp che accompagnò la deliziosa moglie Sophie Taeuber Arp per poi dipingere anche lui un quadro intitolato La Danse in onore alla consorte  invaghitasi delle teorie coreutiche di Laban, però rientrato definitivamente a Monaco nel 1919.

 

  Un anno dopo Ida ed Henri abbandonarono anche loro quel luogo, attraente come una calamita, forse a causa dell’anomalia magnetica del sottosuolo – per andare a fondare nuove comunità in Spagna e in Brasile. Tutto cadde cadde in rovina, la natura tanto amata ritornò a prendere il sopravvento, e le poche case rimaste e abitabili furono affittate ad artisti non certo celebri come i loro predecessori. Tra il 1924 e il ’26 il fallimento e la bancarotta sembravano alle porte e invece, grazie a Marianne Werefkin, pittrice russa legata all’espressionismo tedesco sopraggiunse un salvatore e mecenate: il barone Eduard von der Heydt, banchiere e collezionista d’arte tedesco che, attirato dalla fama e dalla vivacità del posto, ne divenne il nuovo proprietario. Acquistato il Monte, Von der Heydt vi fece costruire un hotel in stile Bauhaus, segnando l’arrivo dell’architettura moderna in Ticino. Il mandato originario per la costruzione di un albergo (tuttora attivo per un turismo d’élite) nel caratteristico stile razionale fu affidato a Emil Fahrenkamp, il costruttore dell’edificio Shell a Berlino. Casa Anatta divenne la residenza privata del barone, che la decorò con la sua collezione di arte africana, indiana e cinese.

 

Uomo intelligente e non solo raffinato, Von der Heydt “non pensò mai di convertire Monte Verità” – come si scrive in Back to Nature – “in un luogo di cura per aristocratici, ma lo mantenne come un centro dinamico che potesse avvicinare intellettuali di destra e sinistra, nobili o artisti indigenti. Con l’ecletticità di quegli anni, sul Monte convivevano attività diverse, dal vegetarianesimo alle colazioni con champagne, dalle partite a tennis alla meditazione buddhista”.  Rispetto al primo periodo, gli artisti che giunsero dagli anni 30 in poi erano spinti da motivazioni e urgenze diverse: stanchi delle città, trovarono nel meridione della Svizzera tranquillità ed ispirazione. In quest’epoca del barone, i maestri del Bauhaus come Walter Gropius, Josef Albers, Herbert Bayer, Marcel Breuer, Lyonel Feininger, Oskar Schlemmer, Xanti Schawinsky e László Moholy-Nagy visitarono Ascona e il Monte Verità, scoprendo quello che Ise, la moglie di Gropius, definì  “il luogo dove la nostra fronte sfiora il cielo”.

 

Negli anni 30 fu di passaggio anche lo psicanalista Carl Gustav Jung: a casa Gabriella, dedicata ad Afrodite, lanciò i convegni “Eranos” (dal greco banchetto o convivio), dedicati all’incontro tra oriente e occidente. Un curioso avvenimento che lo riguarda ha acceso di furore e torve ombre dell’inconscio il noto film Capri Revolution (2018) di Mario Martone. Nella fantasiosa ricostruzione di una comunità di artisti e Balabiott  mai esistita sull’isola della Grotta blu – comunque ospite di perseguitati, ribelli, fuoriusciti soprattutto russi – il regista, coadiuvato dalla coreografa Raffaella Giordano, ha ricostruito La Festa del sole di Laban introducendo il rito del sangue fatto bere, dopo l’uccisione di un cervo, a una labile componente del gruppo, da uno psicanalista pazzo.

 

Nella realtà costui fu di sicuro Otto Gross, ad Ascona dal 1905 al 1911, accusato di aver istigato al suicidio due delle sue amanti, una delle quali era addirittura la Hattemer, tra i capostipiti della colonia “vegetabiliana”: marchiato come malato di mente, fu internato e posto sotto tutela. Jung non fece in tempo a curare quello scomodo paziente/psicoterapeuta  inviatogli da Sigmund Freud, che per ironia della sorte proprio ad Ascona gettò le basi per un’ “università dell’emancipazione dell’uomo verso una società matriarcale” non del tutto inopportuna. Anzi, forse Jung ne tenne conto, allorché durante gli annuali convegni  di “Eranos” di cui divenne il padre spirituale, elaborò una nuova psicanalisi del femminile. Negli anni 40 il barone aprì la sua proprietà a partigiani ed ebrei. Il luogo reso magnifico da orti botanici, giardini colmi di piante esotiche, si spopolò.

 

Nel secondo dopoguerra tornarono numerosi gli scrittori come Erich Maria Remarque, Max Frisch ed Erich Fromm. Negli anni 50 Von der Heydt decise di donare il Monte Verità al Canton Ticino, che nel 1964, alla sua morte, ne divenne proprietario con l’indicazione testamentaria di mantenere il luogo come centro di incontri scientifici e culturali. Per alcuni anni se ne tenne conto, senza escludere l’attività turistica.  Poi la mostra di Szeemann, intitolata “Monte Verità. Le mammelle della verità” fece grande scalpore e oltre a le tour du monde, planò anche sulle Isole di Brissago vicine ad Ascona. A noi piace ricordare che la baronessa russa Antoinette de Saint Légerè, sua proprietaria  tra il 1885 e il 1928, già vi ospitò letterati ed artisti. James Joyce sulle Brissago scrisse parte dell’Ulisse e forse già il magnifico Monologo di Molly Bloom, rapsodia del corpo, esplosione di vita, come Monte Verità.

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