il foglio del weekend
Se un poeta va alla guerra
Il reportage di Auden con il compagno Isherwood nella Cina di Chiang Kai-shek, oggi di nuovo in libreria
Wystan Hugh Auden è divenato una pop star da quando nel film “Quattro matrimoni e un funerale”, con Hugh Grant, l’inconsolabile gay si mise a recitare i suoi versi in ricordo dell’amato: “He was my North, my South, my East and West / My working week and my Sunday rest / My noon, my midnight, my talk, my song / I thought that love would last forever: I was wrong”. Ma prima di diventare una pop star, “la più grande mente del Ventesimo secolo”, come lo definiva Josif Brodskij che iniziò a scrivere in inglese solo per essere come lui, Auden era stato un giovane omosessuale inquieto, affetto da trasandatezza leggendaria e incoercibile nomadismo. A 31 anni, nel 1938, con Christopher Isherwood, altro eccentrico scrittore di racconti autobiografici sulla Berlino prenazista (“Goodbye to Berlin”, Hogarth Press 1939) partì per l’Estremo oriente.
Prima di imbarcarsi i due posarono per una foto ricordo: Auden, più alto, il viso glabro, una montagna di capelli unti sulla testa a pera, la macchina fotografica al collo. Isherwood, più basso, ciuffo ribelle, occhio assatanato, fra le dita l’eterna sigaretta. In fuga dalla piatta Inghilterra, i due negli anni della bohème berlinese tra il declino di Weimar e l’avvento di Hitler, avevano vissuto l’ebbrezza trasgressiva di un’ubiquità tinta di gloria. Auden infatti era considerato il capofila della nuova generazione di poeti (Isherwood, Spender, Day-Lewis, Benjamin Britten) che avevano portato un’aria nuova nella letteratura, aperti com’erano al moderno, al rumore dell’industria, alle città brulicanti di macchine, e insofferenti alla tradizione e all’ipocrisia sessuale della società edwardiana.
Sensibile alle idee di sinistra e al verbo rivoluzionario di Marx e Freud, Auden era partito per l’Islanda in cerca delle radici mitologiche della sua famiglia. Era andato anche in Spagna con le Brigate internazionali a combattere il franchismo, anche se non riuscì a servire neanche un giorno come autista di ambulanze… Dopo aver vagato un po’ senza costrutto tra Barcellona e Valencia, era tornato alla base, tenendo per sé l’amarezza per la fine dell’illusione, l’aver cioè scoperto sul campo la brutalità dei repubblicani comunisti che in nome della libertà e della democrazia combattevano al soldo dell’Urss usando metodi stalinisti, uccidendo gli anarchici, devastando le chiese, torturando i preti.
Nel 1937, per lui e per Isherwood arrivò l’occasione di rifarsi. La Faber and Faber di Londra e la Random House di New York proposero di scrivere un libro di viaggio, in versi e prosa, in una regione di loro scelta. I due erano affiatatissimi. Amici, amanti, sodali, si erano già accordati per un matrimonio di convenienza, quando Isherwood aveva dirottato su Auden Erika Mann, la drammaturga lesbica, figlia di Thomas Mann, e desiderosa di un passaporto per fuggire dalla Germania nazista. E ora, dal momento che in Cina, invasa dal Giappone, era scoppiata la guerra, scelsero l’Estremo oriente, e partirono senza neanche conoscere una parola di cinese o avere la minima idea delle questioni in ballo, come ammisero candidamente nel loro “Viaggio in una guerra”, tradotto ora per Adelphi.
Armati di taccuino, Rolleiflex e una dose di svagata supponenza a gennaio del 1938 s’imbarcarono per l’Egitto. Da Porto Said navigarono verso l’Oceano Indiano e arrivarono a Hong Kong, dove “i personaggi di spicco sono saggi e arguti / uomini solidi per nascita ed educazione” e “soltanto i servi entrano inaspettati / il loro silenzio ha un puro uso drammatico”, come scrisse Auden in una sua poesia. A bordo di un battello fluviale raggiunsero Canton, l’isola di Shamian, le pianure fitte di boschi del Guangdong, fra reminiscenze letterarie e un’attenzione svagata che li portava a registrare tutto ciò che vedevano, strade, mercati, scarafaggi commestibili, bambini col sederino nudo che sbucava dai calzoni, serpenti d’acqua…
Embedded e accreditati nelle alte sfere, ebbero modo di incontrare gli studenti della facoltà cristiana di Paak Hok Dong, assaporare lo scetticismo dei cantonesi refrattari alla guerra, intervistare notabili locali e militari come il generale Wu, che giudicava la Germania di Hitler “molto stupida” a ritenere il Giappone potesse fungere da possibile protezione dal bolscevismo, e intanto lanciava ardite previsioni, mentre i giapponesi attaccavano il confine tra il Guangdong e i Nuovi Territori: “Se il Giappone non combattesse, la Cina diventerebbe comunista. Ma la Germania ha torto. La Cina non diventerà comunista. Invece se la guerra continuerà, sarà il Giappone a diventare bolscevico”.
Da Canton, sferragliando in treno per due giorni e tre notti fra le valli dell’Hunan, con le bombe che esplodevano lungo i binari e le guardie armate che piantonavano gli stranieri, i due arrivarono a Hankou, “la vera capitale della Cina in tempo di guerra” sulla riva del Fiume Giallo, una megalopoli che si estendeva a vista d’occhio coi suoi edifici torvi fino alle pianure innevate dell’Hubei. Ebbero la sensazione di essere arrivati alla fine del mondo. Lì furono ricevuti dal consigliere del capo del governo nazionalista cinese, Chiang Kai-shek, che minimizzando l’assistenza militare della Russia ai cinesi, li rassicurò sul ruolo che i comunisti avrebbero avuto dopo la guerra: “Il comunismo secondo lui ha cessato di esistere in Cina dopo la ritirata di Borodino”, notò Isherwood nel suo diario, alludendo non già alla battaglia di Napoleone contro il generale Kutuzov nella Russia del 1812, quanto all’ex agente sovietico Borodin alleato della sinistra cinese con cui Chiang aveva rotto nel 1927, quando attaccò all’improvviso migliaia di sospetti comunisti e con l’appoggio dei conservatori stabilì a Nanchino il suo governo del Kuomintang. Poi visitarono il quartiere generale del capo dei consiglieri militari tedeschi di Chiang Kai-shek, quel generale Alexander von Falkenhausen, che due mesi dopo, rientrato in Germania, sarebbe stato avvicinato da Adam Trott zu Solz per assassinare il Führer.
Era il 12 marzo 1938. Da quella remota postazione, Auden e Isherwood appresero la notizia dell’ingresso delle truppe naziste in Austria: “Era come vedere il mondo alla rovescia” pensarono. Ma l’aiutante di campo del generale tedesco li confortò: “Prima o poi doveva succedere. E ora spero che Inghilterra e Germania saranno amiche. E’ quello che noi tedeschi abbiamo sempre desiderato. L’Austria non faceva che provocare tensioni tra noi. E’ un bene che l’intera faccenda si sia sistemata, una volta per tutte”, disse ai due inglesi storditi, accompagnandoli dal generale Falkenhausen, il quale, con la sua aria di professore universitario si dichiarava ottimista sulla vittoria della Cina contro il Giappone.
I pessimisti erano solo loro due, Auden e Isherwood, angosciati per le notizie dall’Austria, preoccupati che di lì a poco potesse scoppiare una guerra europea. Che fare? Restare in Cina? Tornare a casa? Da ottomila chilometri di distanza, ogni cosa appariva spropositata in un senso o nell’altro, enormemente grave o irrilevante: “Che importanza può avere per noi la Cina in confronto a questo? Brutte notizie di questo genere hanno un curioso effetto psicologico: tutti i cannoni e le bombe dei giapponesi ci sembrano improvvisamente innocui come moscerini”. Isherwood, che tra i due era di sicuro il più nichilista, giudicava con macabro sense of humour la prospettiva di restare uccisi sul Fiume Giallo altrettanto insignificante che perire in un incidente d’auto a Burton-on-Trent. Ma nonostante l’ironia per aggirare l’angoscia, il viaggio doveva continuare. Così, mentre l’Anschluss dell’Austria al Terzo Reich li gettava nello sconforto, i due embedded ottenevano le credenziali dal responsabile dell’Ottava Armata a Hankou per presentarsi all’esercito comunista che si stava formando a Nanchang. Ospiti dell’Agenzia di stampa centrale, la sera assistevano alla loro prima opera lirica cinese in un teatro stracolmo, dove il pubblico che conosceva l’opera a memoria entrava e usciva, inseguito dai camerieri con tazze di tè e asciugamanetti caldi. “Era come sentire la messa in una chiesa italiana”, osservò Auden.
A Hankou furono ricevuti dalla moglie di Chiang Kai-shek, che l’anno dopo sarebbe morta sotto le bombe giapponesi. Educata in America, questa donna minuta dalla compostezza terrificante, era la paladina del Movimento per una Nuova Vita, la crociata varata dal marito tre anni prima, per dare ai cinesi quello che i comunisti avevano promesso senza mantenere, e cioè modelli di abbigliamento femminile, segregazione dei sessi, igiene dentale forzata, bando assoluto dell’oppio, divieto per i funzionari pubblici di frequentare… Mentre stavano per congedarsi, s’imbatterono nel Generalissimo, che aveva solo cinquant’anni, ma appariva già rigido come un manico di scopa e affetto dalla fragile impassibilità di un fantasma.
Auden, nella sua epica trasandatezza che in vecchiaia gli avrebbe precluso di corteggiare Hannah Arendt, da nemico dell’igiene coercitiva era scettico sulla riforma civile lanciata da Chiang. In più, se la rideva di gusto immaginando col suo compagno di viaggio gli spostamenti frenetici che la coppia presidenziale avrebbe fatto in tutta la Cina nazionalista per costruire fognature, abbottonare i capotti delle cinesi, aprire cliniche da una provincia all’altra. Eppure, ai loro occhi, l’egemonia di Chiang era vitale per la Cina, anche se intanto passavano i giorni sotto l’urlo continuo delle sirene, tra il tonfo sordo delle bombe lanciate dagli aerei e il rombo dei cannoni.
Da Hankou, con un lasciapassare del Generalissimo, presero il treno per Zhengzhou, fra passeggeri intenti a usare le sputacchiere sistemate dietro di loro. Arrivati in quella città di gangster, ladri, prostitute e giocatori d’azzardo, videro gli sventramenti provocati dagli aerosiluranti giapponesi, i venditori ambulanti costretti a lavorare solo di notte in mezzo a rifugi di fortuna formati da assi accatastati; percorsero la strada che dal mercato portava all’ospedale annotando ogni cosa. Da Zhengzhou raggiunsero Minzhuan, in cinese vuol dire “Democrazia”, punto di raccordo al centro di un’immensa pianura di fango ribattezzata da Auden “La Cattiva Terra”. Poi lungo il Fiume Giallo proseguirono il viaggio facendo incontri di varia umanità con volontari europei nati in Cina ma cresciuti in Canada, come il coordinatore della Croce Rossa che s’era pagato gli studi lavorando come scaricatore di porto e barbiere; col vescovo franchista che brindava con una bottiglia di sherry augurandosi la vittoria dei giapponesi; colla vecchia cinese che durante uno spuntino sotto l’albero di un parco, avvertiva che le teste le teste dei banditi giustiziati il giorno prima e finite in un fosso lì vicino se l’erano già mangiate i cani… Incontrarono pure dei missionari italiani che avevano sentito alla radio che i giapponesi avevano conquistato una città a venticinque miglia più a nord. A un certo punto, temettero di aver perso i bagagli, inghiottiti da una massa di soldati e profughi che s’erano addormentati come un fungo da incubo sui marciapiedi della stazione. Scortati dal loro palafreniere cinese, recuperarono le valigie, e in treno fecero tappa a Wenzhong, Tongguan, Bandao, arrivarono fino a Xi’an, e poi Chengdu, Chongquing. Da lì in battello ridiscesero il Fiume Giallo fino a Hankou, poi a Nanchang verso il fronte sudorientale, e persino a Jinhua con le sue strade strette e lastricate dove, ospiti del governatore locale, si trovarono a parlare di fronte agli studenti destinati a diventare insegnati e propagandisti. “Dopo questa guerra, dovrete combattere un nemico ancora più terribile dei giapponesi” li ammonì Auden, con la sua voce profetica da alto. “Dovrete combattere malattie, pessime case, analfabetismo, sporcizia…” precisò Isherwood sardonico, e per non essere da meno aggiunse: “Dovrete salvare la Cina, il Giappone, l’Europa”. Intanto fra gli studenti cinesi alcuni li seguivano attentamente, altri ridevano, altri s’erano messi a disegnare, un paio addirittura dormivano.
Concluso il viaggio a Shangai, occupata dai giapponesi e brulicante di militari e diplomatici stranieri, Auden e Isherwood restarono in Cina fino al 12 giugno 1938. Per rientrare in Europa, scelsero la rotta del Pacifico. Col visto americano, s’imbarcarono per il Giappone e dopo un breve tappa, a fine giugno approdarono a Vancouver, da dove continuarono in treno attraversando il Nord America. Arrivati a New York vi rimasero quindici giorni, inebriati dalla metropoli, dalle allettanti promesse di guadagno offerte da giornali ed editori a giovani scrittori intraprendenti come loro, pronti a farsi fotografare, a rilasciare interviste, a entrare nel giro della mondanità, eccitati dalla libertà sessuale di cui, a differenze che in Inghilterra, gli omosessuali potevano godere impunemente. Fu così che i due amici decisero di emigrare in America, cosa che fecero nel gennaio 1939, sottraendosi all’impegno della militanza e allo scoppio della guerra in Europa. Svanita l’illusione di cambiare il mondo, non gli restava che cambiare sponda.