c'era un tempo
Stolti sono coloro che vogliono fare gli antifascisti togliendo le foto del Duce
A Emilio Lussu e Gianni Rodari non sarebbe mai venuto in mente. Ma viviamo ormai in un'era derelitta, in cui si vorrebbero cassare a tutti i costi le rappresentazioni di Mussolini dalla parete di un qualche edificio repubblicano dove sono esposti in successione nomi e volti dei capi dei governi italiani
C’è stato un tempo in cui gli antifascisti italiani erano gente della razza di Emilio Lussu, un eroico combattente della Prima guerra mondiale su cui scriverà un capolavoro dal titolo Un anno sull’altipiano, il fondatore del Partito sardo d’azione, uno che quando il 1° novembre 1926 una torma di fascisti diede l’assalto alla casa cagliaritana in cui viveva fulminò con un colpo di fucile il primo di loro che si era arrampicato su una ringhiera, al che gli squadristi si ritrassero.
Gente della razza dell’ingegnere Willy Jervis, il partigiano quarantatreenne che i nazi catturarono l’11 marzo 1944, torturarono a lungo senza averne una parola, per poi fucilarlo nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1944 nella piazza principale di Tor Pellice e infine impiccarne la salma in segno di spregio. Accanto al cadavere venne ritrovata una Bibbia tascabile su cui Jervis aveva inciso con uno spillo le seguenti parole: “Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per avere servito un’idea”. Gente della razza di Umberto Terracini, uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia, il quale in una cella fascista trascorse oltre quindici anni della sua vita e che a sera – me lo raccontò nell’intervista che gli feci quando compì 85 anni – immancabilmente stendeva sotto il materasso i pantaloni del suo vestiario da detenuto perché conservassero una piega acconcia. Gente della razza del torinese Vittorio Foa, il militante del movimento di Giustizia e libertà arrestato venticinquenne nel 1935 e che restò in cella sino alla caduta di Benito Mussolini nel 1943, uno che parlava con ironia di Pitigrilli – lo scrittore che lo aveva denunciato – e che mi raccontò una volta quanto fosse raggelante il fragore entusiastico che a lui, detenuto nel carcere romano di Regina Coeli, arrivava dalla non lontana Piazza Venezia dove una folla di ciarlatani stava plaudendo all’annuncio che l’Italia aveva appena dichiarato guerra alla Francia messa in ginocchio dall’attacco combinato dei Panzer e degli Stukas nazi.
Viviamo adesso un tempo derelitto in cui gli antifascisti si distinguono perché vorrebbero cassare a tutti i costi le eventuali foto del Duce dalla parete di un qualche edificio repubblicano dove sono esposti in successione nomi e volti dei capi dei governi italiani. Non ci deve stare il volto di quel Benito Mussolini che capo del governo lo è stato dall’ottobre 1922 al luglio 1943. No, non ci deve stare, e questo in nome dell’antifascismo targato 2022, ossia la bellezza di 77 anni dopo che il fascismo è morto e sepolto nell’ignominia. Solo che tutto puoi fare tranne che cancellarne le tracce numerosissime, gli indizi talora vistosi, i protagonisti di spicco, le particolarità di una storia comunque esorbitante com’è stata quella italiana durante il ventennio. Cancellare dalla nostra memoria persino il volto del Duce, ma che razza di idiozia è questa? O magari cancellare, come di tanto in tanto viene proposto da qualche energumeno, le tracce di quel risonante matrimonio degli anni Trenta tra architettura razionalista e fede fascista di cui aveva acutamente ragionato Pier Maria Bardi. Avremmo dovuto abbattere quella meraviglia che è la Casa del fascio di Giueppe Terragni a Como e da cui purtroppo i partigiani scalpellarono via gli splendidi bassorilievi di Mario Radice? Né è un caso che ogni tanto riemerga l’opzione belluina di cancellare l’obelisco Mussolini al Foro italico, uno spicchio di architettura tra le più straordinarie del Novecento, quello dove si sfrenò il genio dell’architetto Luigi Moretti. E quanto agli studenti di letteratura italiana, che dovrebbero farne della foltissima letteratura futurista dov’è incessante l’apologia del Duce da parte di un Fortunato Depero o di un Filippo Tommaso Marinetti o dei due fratelli Bragaglia? Dovrebbe toccar loro la sorte che toccò a me, studente universitario nei Sessanta, di non sentire mai pronunciare una sola volta la parola futurismo?
E ancora. Lo sapevate che il più mirabolante e riuscito allestimento di una Mostra fatta durante il Novecento italiano è stato l’allestimento nel 1932 della Mostra dedicata al decennale della Rivoluzione fascista, l’allestimento cui collaborarono Mario Sironi su tutti ma anche Leo Longanesi e tanti altri? E a proposito di Sironi, accadde che nei giorni attigui al 25 aprile 1945 lui si fosse incamminato assieme al suo cane in direzione di Como sperando di passare il confine con la Svizzera. Quand’ecco che lo ferma un posto di blocco partigiano, ed erano tempi in cui quei partigiani non avrebbero indossato guanti bianchi nel trattare un fascista vistoso quanto lo era stato Sironi. Per fortuna uno di quei partigiani era l’allora venticinquenne Gianni Rodari, che riconobbe Sironi e gli diede un lasciapassare da far valere verso eventuali altri partigiani che lo avessero intercettato. Mio futuro collega e amico al quotidiano comunista Paese Sera, me lo raccontò una volta in quella sua casa romana a Monteverde dov’ero andato a salutarlo. E a proposito di foto di Mussolini, ricordo quella di un Mussolini giovane e come lampeggiante che mio padre teneva dietro la sua scrivania da lavoro. Nell’Italia degli anni Venti mio padre era stato fascista, eccome se lo era stato. Quando una o due volte al mese andavo a mangiare a casa sua (era separato da mia madre), quella foto la guardavo sempre. Non avevo la maturità per chiedere a mio padre che cosa significasse quella foto per lui. Mai una volta mio padre aveva obiettato qualcosa al mio essere un esuberante ventenne di sinistra. Quando non avevo più una lira di che pagare la tipografia che stampava Giovane critica, la rivista che avevo fondato a ventidue anni, lui ne raccolse l’amministrazione. Senza mai dirmi una parola su quel che dovessi farne di una rivista sulle cui copertine figuravano i volti ora di Mao ora di Che Guevara.