Politica e teatro
Alcina un po' come Giorgia. Ma questo è un sublime spettacolo d'opera
La protagonista del capolavoro di Händel messo in scena a Firenze trova molte somiglianze con la nuova premier. È una self-made-woman che s’impone a un mondo maschile. Una presidente, anzi un presidente, di una comunità riottosa che regola con pugno di ferro
Il nuovo governo ha debuttato in concomitanza con il miglior spettacolo d’opera visto quest’anno in Italia, Alcina di Händel (infatti importato da Salisburgo, quanto a opera barocca da noi siamo più o meno ai tempi del pentapartito) nell’Auditorium del Maggio fiorentino con Santa Cecilia delle Colorature, insomma la Bartoli.
E qui, le somiglianze con il Meloni I appaiono subito sorprendenti. Come Gggiorgia, anche Alcina, la maga ariostesca che tramuta i suoi amanti usa e getta in animali e in piante, è una self-made-woman che s’impone a un mondo maschile, una presidente, anzi un presidente, di una comunità riottosa e rissosa che regola con pugno di ferro. Ruggiero, il toy boy paladino che prima l’ama e poi la tradisce, è contraddittorio e pasticcione come Matteo; Silvio sembra proprio il vecchio Astolfo che, di ritorno dal tour sulla luna in sella all’Ippogrifo, è stato trasformato in belva e silenziato per evitargli gaffe, mentre il figlioletto Oberto (una Ronzulli anche più petulante) lo cerca ovunque invano. Anche Alcina ha una sorella consigliera, Morgana, e anche Morgana un compagno gratificato di compiti dirigenziali: solo che rispetto a Lollobrigida questo cognato Oronte è “capo delle guardie di Alcina”, dunque sovranità tout court, non solo alimentare. Dove proprio queste opere non sono allineate al potere in carica è nell’allegra ambiguità sessuale, che è poi la vera ragione del loro successo contemporaneo. Capita che l’eroico Ruggiero eroicizzi con voce bianca, e in effetti alla prima, a Londra nel 1735, era il celebre castrato Carestini (qui un controtenore, cioè un uomo con tutti i pezzi attaccati ma che canta in falsetto, Carlo Vistoli, funambolico nelle agilità e commovente nei cantabili, dunque arcibravo); e che la sua amata Bradamante lo vada a recuperare travestendosi da uomo e venendo quindi concupita da Morgana che cornifica per lui/lei il compagno tenore. Insomma, c’è una donna che fa l’uomo di cui si innamora un’altra donna, tutto uno sfrenato e sfrontato gender fluid che Roccella non apprezzerebbe, altro che famiglia tradizionale e Natalità.
Si scherza, ovvìo (siamo a Firenze). Però questo spettacolo incantato e incantevole, solo un po’ rimpicciolito rispetto a Salisburgo nelle scene meravigliose di Paolo Fantin ma intatto nella regia di Damiano Michieletto, e addirittura migliore nella direzione folgorante di Gianluca Capuano alla testa dei suoi formidabili Musiciens du Prince (il prence in questione è Alberto di Monaco), rivela il vero significato del capolavoro. Perché dietro gli effetti speciali e i prodigi, i gorgheggi sovrumani e i cavalli alati, le magie sceniche e vocali, quest’Alcina racconta soprattutto la nostalgia degli amori finiti e dei paradisi perduti, quel lancinante senso di vuoto che ci chiude la gola quando le storie finiscono, e finiscono quasi sempre male. Così lei, l’ingannatrice ingannata, smette di essere maga e regina e diventa soltanto una donna abbandonata, ed è nelle arie patetiche che questa volta Santa Cecilia nostra, peraltro appena uscita da una laringite, ci porta nell’iperuranio di un piacere doloroso, di una dolcissima pena. Lo specchio magico è infranto, i suoi frammenti calano lentamente sulla scena tagliata come una ferita da un neon chirurgico (il solito Fantineon!) e lei, distrutta, imbruttita, un’inutile spada ancora in mano, si accascia al proscenio per cantare la sua ultima aria, che poi ultima non sarebbe, ma viene spostata lì con grande trovata drammaturgica, “Mi restano le lagrime”. Si piange e, come sempre quando il teatro si alza a queste altezze, si piange in realtà di noi stessi.
P. S.: che poi l’esecutivo non abbia in serbo delle grandi novità per l’opera lirica, che pure sarebbe la più italiana e autarchica e nazionalpopolare delle arti, lo dimostra la prima intervista al neoministro Gennaro Sangiuliano, che annuncia di volersi avvalere dei consigli in materia non di Riccardo Chailly o Daniele Gatti o Michele Mariotti o magari, appunto, di Cecilia Bartoli, ma di Beatrice Venezi. Sarà all'altezza? Speriamo.