Foto Unsplash

cancel art

Il pregiudizio woke che premia l'artista nero e castiga la curatrice bianca

Francesco Bonami

Due pesi e due misure al museo Guggenheim di New York. La storia del vice direttore Nancy Spector, che nel 2020 venne accusata di razzismo e defenestrata, si intreccia con la recente retrospettiva sul pittore novantacinquenne Alex Katz

Sul numero di novembre della rivista The Atlantic c’è un articolo molto interessante di Helen Lewis che racconta la storia di Nancy Spector, vice direttore e curatrice capo del museo Guggenheim di New York, alla quale nel 2020 , per usare un eufemismo, è stato suggerito di  andare prematuramente in pensione, dopo che era stata accusata di razzismo da una giovane collega afroamericana, Chaédria LaBouvier.

La Spector, con una lunghissima e rispettatissima carriera alle spalle, è stata defenestrata, nonostante una lunga e accurata investigazione avesse provato la mancanza di qualsiasi fondamento alle accuse che le erano state rivolte. Ma eravamo nel mezzo dell’uragano Black Lives Matter e il rogo della cancel culture stava divampando. Cosi il direttore del museo Richard Armstrong, per salvare la propria pelle, bianca che più bianca non si potrebbe, ha usato la povera curatrice come vittima sacrificale da dare in pasto ai demoni della giustizia razziale, distruggendone sia la vita che la carriera. L’articolo parla anche di altri casi di direttori e curatori di museo  costretti a dimettersi per aver usato parole sbagliate al momento sbagliato con la gente sbagliata. Pochi mesi dopo il sacrificio di Nancy Spector, il Guggenheim ha assunto al suo posto la stella nascente dell’olimpo dei curatori Naomi Beckwith, afroamericana di Chicago, 46 anni. Pare che Armstrong, parlando con una collega abbia definito questa scelta una questione di vita o di morte. La vita di tutto il museo, bianco al 90 per cento? La morte professionale della Spector? Non si capisce.

Chaédria LaBouvier era stata in effetti la prima curatrice nera di una mostra  in tutti gli 80 anni della storia del Guggenheim. Non un buon motivo tuttavia per far ricadere la politica discriminatoria di tutto un museo sulla testa di una persona, non solo assolta dalle accuse, ma che in più agli inizi della propria carriera aveva dovuto faticare non poco per salire nell’ordine di merito dei musei americani dominati in prevalenza da direttori e curatori maschi. Fastforward ed eccoci a pochi giorni fa. Il Guggenheim ha inaugurato  una grandissima retrospettiva del pittore novantacinquenne Alex Katz. Katz, che è bravissimo e alla sua età sicuramente meritava una grande  mostra  in un prestigioso museo. Ma Katz non è un artista rivoluzionario, non è un gigante al quale saranno dedicati molti capitoli della storia dell’arte. E’ una sorta di Edward Hopper del dopoguerra. La differenza con Hopper è che Katz è cresciuto in un mondo, o meglio in una società, quella americana contemporanea, molto più complicata di quella di Hopper. Il problema razziale è stato centrale e devastante e  Alex Katz lo ha potuto e dovuto guardare in diretta, mentre Hopper poteva anche far finta che non esistesse. 

Cosa c’entra tutto questo con Nancy Spector, il razzismo e la cancel culture? C’entra perché tutta l’arte di Katz ha avuto come soggetto la borghesia bianca benestante degli Hamptons e del Maine. Ogni dipinto parla del benessere dei bianchi e dei privilegi del loro tempo libero. Non con occhio critico ma compiacente e connivente. Non è certo una colpa dipingere la fortuna dei bianchi, ma fa specie vedere un museo, che solo un paio di anni fa  si era ritrovato in un girone infernale di accuse di razzismo tale da obbligarlo a terminare 34 anni di carriera di una delle sue più stimate curatrici, celebrare un artista lontano anni luce dai problemi attuali della realtà culturale americana. Tuttavia la cosa che ha colpito di più la mia attenzione è stato un estratto, dal testo nel catalogo della mostra, scritto da Arthur Jafa, amico di Katz e rappresentato dalla stessa galleria. Nel testo Jafa tesse le lodi dell’amico ma anche, fra le righe, del suo totale disimpegno da qualsiasi solido contenuto.

L’estratto del testo è un elogio alla bellezza della pittura di Katz a prescindere dai suoi soggetti. Commovente nell’affetto che questo artista, di trent’anni più giovane, dimostra per l’anziano maestro. La cosa che dovrebbe lasciare perplessi però è che  Arthur Jafa ha vinto il Leone D’oro alla Biennale di Venezia del 2019 con un video di 40 minuti intitolato The White Album, una profonda esplorazione del razzismo dei bianchi negli Stati Uniti. Nel Maine celebrato da Katz pochi anni fa un club di golf chiamò la polizia perché due giocatrici nere rallentavano il gioco degli altri giocatori, molto probabilmente bianchi. Il lavoro di Jafa, afroamericano anche lui, è diametralmente opposto, moralmente e visivamente, al mondo dipinto da Katz. Più che altro è sale sulle ferite aperte delle contraddizioni dei musei americani in tema di razzismo. Se il Guggenheim sembra affetto da una forma di Alzheimer istituzionale, fregandosene del destino dei propri collaboratori, più difficile è comprendere come un testimone cosi radicale della propria cultura come Arthur Jafa possa, per quanto sacra sia  un’amicizia, dimenticarsi anche in poche pagine di un catalogo, che magari nessuno leggerà, della propria responsabilità e della propria coerenza. Responsabilità e coerenza che altri hanno manipolato e trasformato in armi letali per obbligare Nancy Spector, e altri forse altrettanto innocenti colleghi, a dire addio alla propria storia e alla propria carriera senza alcun diritto di replica, di difesa e, perché no, di accusa.

Di più su questi argomenti: