Pensieri sul mondo restando aderenti all'inesauribile superficie delle cose

La pandemia ha reso evidenti a tutti, anche a chi si cullava nel mito del progresso dato dall’avvento delle interazioni sul web e della smobilitazione dei confini, quanto la nostra società stia inesorabilmente perdendo i legami con quelle “certezze” date per assodate lungo i secoli

Pubblichiamo ampi stralci della prefazione al libro di Sergio Belardinelli "L'inesauribile superficie delle cose" edito da Cantagalli (272 pp., 18 euro). Il volume è una raccolta di articoli occasionali scritti dall’autore sul Foglio. Pensieri ancorati alla realtà.

   


  

Mancano solo le trombe e poi l’Apocalisse biblica narrata da Giovanni sarebbe qui davanti a noi. Non è necessario elencare i drammi e le tragedie che ci accompagnano dall’inizio del Terzo millennio, quello che doveva essere consacrato definitivamente alla realtà globale iper connessa, alle comunicazioni sempre più veloci. Un mondo di pace, ché la Storia dopotutto pareva finita con il De profundis intonato al crollo dell’Unione sovietica e della sua galassia. Poi sappiamo che gli anni Novanta si sono portati dietro le guerre nei Balcani, l’instabilità nel vicino e medio oriente, la crescita che pareva inarrestabile della Cina. All’alba del secolo, la guerra all’America con l’abbattimento delle Torri gemelle a New York e la reazione in Afghanistan e quindi in Iraq. Non c’è più stato un attimo di respiro: guerre per procura, guerre combattute con violenza che si riteneva consegnata a un tetro passato, il terrorismo. Il califfato islamista che riduceva in macerie le terre che un tempo furono la Mesopotamia e la Siria che l’occidente a lungo ha considerato una propria esotica – e perfino quasi democratica – propaggine. Quindi la Russia, ed è vicenda di oggi destinata a esserlo anche di un domani non troppo definito.

 

Non si tratta, qui, di fare un ripasso di storia o di impartire una lezione di geopolitica: si tratta di sottolineare quanta complessa fosse la realtà sulla quale Sergio Belardinelli, nel corso degli anni, ha costruito i suoi contributi per il Foglio. Sempre da una prospettiva lucida e rigorosamente ancorata al vero, senza cedere alla tentazione di condividere propri desideri o di spiegare come va il mondo con la sicumera dell’uomo dotto che ne ha viste tante e le ha insegnate in ambito accademico. Molto più semplicemente, Belardinelli resta fermo, guarda lo scorrere del tempo e della Storia e ne distilla i fattori-chiave, quelli decisivi che hanno importanza. Lasciando andare il carico, sempre più notevole nella nostra epoca disordinata, di orpelli e urla, di analisi verbose e parentesi sovente oscure e poco comprensibili. Non di rado lo fa con leggerezza e ironia – si pensi “all’elogio del 29 agli esami d’università” –, perché alla fine questo è il mondo che abitiamo e che dobbiamo prendere per quello che è, meraviglioso e caotico, migliorabile ma pieno di angoli da scoprire e apprezzare. La pandemia ha reso evidenti a tutti, anche a chi si cullava nel mito del progresso dato dall’avvento delle interazioni sul web e della smobilitazione dei confini, quanto la nostra società stia inesorabilmente perdendo i legami con quelle “certezze” date per assodate lungo i secoli. Legami umani, innanzitutto: l’individualismo dominante che ha portato tanti a dire che in fin dei conti il lockdown è stato a suo modo riposante, non dovendo vedere più tante persone e potendosi concentrare sulle chat virtuali e sulle serie tv viste a tutte le ore del giorno e della notte. Il che ha portato il sociologo Belardinelli a domandarsi, riferendo di una simpatica discussione famigliare, se la città ideale di Urbino, vuota e senza i suoi cittadini, rappresenti davvero l’ideale per noi figli del Novecento e immersi in questo incerto Duemila. Ma in discussione finiscono anche i legami con quelle realtà che hanno segnato la storia dell’uomo, almeno dell’uomo occidentale. La Chiesa, ad esempio, che volge lo sguardo alle lontane periferie e guarda crollare il sacro nel suo cuore, la vecchia Europa. La Chiesa che non ama più molto sentir parlare di princìpi non negoziabili e che ritiene problematico discutere di vita e famiglia naturale perché teme la reazione del mondo che va corteggiando. Lo si vede nella vicina Germania, con il suo Sinodo che si ripromette di cambiare morale e dottrina per rendere appetibile la Chiesa a chi oggi la ritiene residuo di un passato ormai superato. Legami sempre più deboli con l’Europa e con i valori occidentali, disconosciuti o – peggio – considerati malsani e forieri di sventure, come dimostrano i nostri talk-show in merito alla guerra russo-ucraina, dove i distinguo sono à la page. Guerra giusta o sbagliata, consegna o no delle armi a Kiev, provocazioni della Nato: tutte domande retoriche, per il nostro Autore. Perché restando fedeli alla superficie delle cose, cioè alla cruda realtà, appare evidente che gli aggrediti vanno difesi, stante una chiara invasione da parte di un altro stato. “Con buona pace di coloro che non da oggi confondono il mondo reale con quello cantato da John Lennon in Imagine, pensando di espungere il tragico dalla condizione umana con parole più o meno edificanti”. Di tutto questo, e ovviamente di molto altro, ha scritto Sergio Belardinelli sul Foglio. Aderendo alla “superficie delle cose”, come da titolo di questa raccolta. Senza cioè cercare significati nascosti o una complessità che il nostro secolo avverte come doverosa ma che, il più delle volte, non ha ragion d’essere. E’ questo il filo conduttore dei testi qui riproposti, che toccano sì molteplici temi, ma che hanno sempre al centro della riflessione l’uomo. L’uomo per come è oggi, smarrito e confuso, preda di mille e più tentazioni e stimoli, disorientato e spesso incapace di riconoscere un senso alla propria esistenza. Osserva Belardinelli che “sia la natura umana che la natura esterna evocano insomma il bisogno che ce se ne prenda cura. E sta precisamente in questo paradigma del prendersi cura la chiave d’accesso a una ecologia integrale che, mantenendo l’uomo al centro senza fanatismi, sappia promuovere un nuovo habitus culturale per l’oggi e per i giorni a venire, un modo rispettoso di guardare a noi stessi, agli altri e a tutto ciò che vive sul nostro pianeta”. Operazione molto complicata, considerato che il tutto – nel mondo iper semplificato in cui viviamo – è ridotto a una questione di borracce da usare in luogo delle bottiglie.

  

La pandemia, all’inizio, sembrava aver dato la sveglia: stavamo riportando l’umano al centro nella sua interezza, eravamo impegnati a riallacciare i fili con la realtà. E’ durato poco, abbiamo perso di nuovo la ragione, forse inevitabilmente. Impazienti, abbiamo sacralizzato la tecnica in tutte le sue forme, riducendo dubbi e perplessità ad ancestrali bigottismi. In fin dei conti, non servirebbe chissà quale opera di invenzione: basterebbe ripartire dai fondamentali e guardare il mondo nella sua semplicità, senza inutili sovrastrutture o affannose ricerche della complessità. Si scoprirebbe una realtà diversa, capace di destare stupore e curiosità. Privando l’uomo di quella perenne ansia  d’affermazione e di fare qualcosa che sembra averlo ormai conquistato. Aderendo alle superficie delle cose, resteremmo stupiti da quante considerazioni potremmo fare perfino attorno al riordino di una semplice libreria domestica.

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