“Anime” di Roy Chen è un fuoco d'artificio che esplode di gioia e dolore
Il romanzo più letto in Israele nel 2020, è un libro felice, felicissimo, una vera festa della letteratura che sa “vedere” la vita, una storia di morti e rinascite
Emigrare è un po’ morire. Ma – con le debite proporzioni – sembra soprattutto una reincarnazione.
“Ognuno cambia, soprattutto noi che abbiamo lasciato un paese per essere dei nuovi immigrati. Ci siamo detti che qui era diverso. Avevamo capelli diversi, scarpe diverse, cibo diverso, canzoni diverse, un odore diverso, perfino piangevamo in modo diverso. Che c’è da dire? E’ tutto vero, tutto vero. A volte il nostro corpo mantiene con forza, dentro, cose che erano di prima”.
Così parlò Marina, la mamma di Grisha, che nel bellissimo romanzo di Roy Chen, Anime (Giuntina, 334 pp., 19 euro), è la voce disturbante (e sgrammaticata) della voce narrante, quella di suo figlio. Interferenza necessaria, perché Grisha è fatto come è fatto – sostiene lei – e con la scusa di raccontare la propria storia, racconta storie altrui, deformandole, facendole proprie, mettendo in fila menzogne, dettagli imbarazzanti, e dandosi a riciclaggi offensivi di materiale familiare. “Anche nell’allegoria ci vuole un po’ di tatto”, lo ammonisce. Ed è così che, grazie a un’intromissione, il lettore conosce due versioni della stessa storia: di capitolo in capitolo e man mano che la storia si fa. Da una parte la voce di Grisha, che – sostiene lui – è in vita da quattrocento anni. Dall’altra la voce di Marina che, a cavallo di baldanzose e comiche distorsioni linguistiche (è un’immigrata russa e le escono cose tipo: “La sua anima sia in piscina!” – in ebraico “benedetta” e “in piscina” sono foneticamente molto simili) gli corre dietro, lo tallona, gli morde i polpacci, lo corregge allo scopo di ristabilire verità e cronologia, svelando sistematicamente cosa si celi dietro le bizzarre fantasticherie del figlio, un vero maleducato (ha trasformato una nonna malata in una mucca urlante), un grafomane grassoccio e sbadato – lascia aperti i file che scrive, ovvio che la madre si impicci. E’ inetto alla vita ma non alla pagina, perché lì, sulla pagina, prende il volo e non si ferma più, decolla, vola via, plana all’indietro, danza nel vento dei secoli e vaneggia del suo viaggio nel mondo. E srotola il rocchetto dei ricordi: dai cieli di Chorbitz tra Polonia e Lituania all’inizio del diciassettesimo secolo, fino alla luce veneziana cent’anni dopo, e da lì in avanti, di corpo in corpo, di secolo in secolo, di paese in paese, di sé in sé, di identità in identità, dall’est Europa fino in Marocco a metà Ottocento, per finire a Dachau nel 1942.
Due parole sull’autore: Roy Chen ha il Marocco e la Spagna nella propria storia personale. E’ il drammaturgo stabile del teatro Gesher, nel cuore di Giaffa, simbolo dell’immigrazione russa anni Novanta. Ed è traduttore dal russo, imparato da autodidatta. Dopo un romanzo quindici anni fa e una manciata di racconti nel 2011, ha firmato questo successo letterario. E’ il più letto in Israele nel 2020, ed è un romanzo felice, felicissimo, una vera festa della letteratura che sa “vedere” la vita. La narrazione è prorompente e volteggia tra performance orale e solidi echi letterari. La voce narrante si rivolge spessissimo al lettore (forse troppo?) e lo chiama in causa, lo stana e lo circuisce, lo seduce e lo rintrona, e ha il pregio della nettezza, dichiarando senza mezzi termini la propria visione del mondo: “Ben venga una bugia, ma che sia brillante”. Si parte con un elogio al bugiardo di talento da una parte, si risponde con un pragmatico “questo non è inventare, è mentire!” dall’altra: e via così per trecento pagine, prima il figlio e poi la madre, tesi e controtesi, letteratura contro vita, bugie contro realtà svuotando e riempendo l’esistenza, tutta carne con fuoco che arricchisce la storia di una riflessione continua su cosa sia la menzogna, su quale rapporto ci sia tra vita e invenzione, su come la pagina risarcisca la vita e su come la vita risponda a modo suo, e sappia rispondere. Un romanzo di morti e rinascite, un fuoco d’artificio che esplode di gioia e di dolore e chiama al brindisi: ben venga una vita, ma che sia molteplice.