prospettive
C'è più psicologia che ideologia nelle tracce di fascismo della nostra società
La sofferenza dell’individuo sovrastato dalla massa. Il libro appena uscito di Marcello Flores e Giovanni Gozzini fa una scelta di campo per raccontare il ventennio e i segni che ha lasciato: valorizzare il rapporto fra storia e le scienze sociali
Torno da un interessantissimo convegno organizzato dalla rivista Una città, che si è tenuto a Forlì dal 27 al 30 ottobre, dedicato a “Fascismi e internazionalismo democratico”. Molti i relatori (una trentina) e il dibattito non è mancato. Proprio nel corso del pomeriggio in cui ci si interrogava “se si può parlare di fascismo oggi”, mentre qualche ora prima l’interrogativo era “che cos’è il fascismo?”, mi sono chiesto se sia ancora il caso di usare il termine fascismo al di fuori di quello che è stato storicamente in Italia. La mia era la scoperta dell’ombrello, perché è noto da tempo, grazie al libro di Ernst Nolte sul tema, che le teorizzazioni sul fascismo sono di due tipi: ci sono quelle “singolarizzanti” e quelle “generalizzanti”, entrambe a loro modo giuste e utili. Quando si “singolarizza” il fenomeno fascista lo si fa per correttezza storico-empirica, che mira a ricostruire con precisione i fatti e gli atti del fascismo in particolare italiano (il fascismo è stato inventato da noi, anche se ha fatto scuola). Quando invece si “generalizza”, l’utilità è l’efficacia politico-diagnostica del termine, perché non si vuole lasciarsi sfuggire nessuno dei sintomi sociologici, psicologici, ideologici che annunciano un pericolo fascista anche in regimi che formalmente fascisti non sono.
Ai limiti estremi delle due tendenze interpretative si possono indicare due casi. Nel caso di chi vuole “singolarizzare” il fascismo ci si aspetta che un leader caratterialmente simile a Benito Mussolini organizzi violente bande squadristiche e una specie di “marcia su Roma”: e se non si arriva a questo non si deve parlare di fascismo. Nel caso invece di chi “generalizza” il fenomeno fascista, individuandone anche manifestazioni molecolari, si può arrivare, come ha fatto una volta una femminista sia moglie di un marito che madre di famiglia affermando che “tutti gli uomini sono fascisti e sono tutti uguali”. Anche un sofisticato critico letterario come Roland Barthes si conquistò un primato di estremismo generalizzante dicendo che “la lingua è fascista” per il fatto che è regolata da un ordine gerarchico sia nella morfologia sia nella sintassi.
Ma politicamente parlando e in termini non troppo emotivamente militanti (fascismo/antifascismo è una coppia ad alta temperatura militante) si potrebbero usare categorie generali senza dubbio negative ma più adattabili a una molto varia fenomenologia: come dittatura, regime autoritario, dispotismo, autocrazia, totalitarismo; mentre stalinismo e nazismo sono regimi inconfondibilmente legati il primo al comunismo di Stalin, il secondo al nazionalismo bellicista e razzista di Hitler.
Parlare di fascismo va bene in Italia e in Europa, dove comunque non va dimenticata la variante militar-clericale spagnola del franchismo nelle sue tre o quattro fasi diverse e successive, ispirato comunque più al fascismo italiano che al nazismo.
Se ogni forma politica non sfugge alla storia anche nel caso che si ripresenti e si ripeta, allora può essere utile differenziare la denominazione, non per attenuare il giudizio negativo ma piuttosto per attualizzare le reviviscenze autoritarie, illiberali e antidemocratiche, da intendersi non come “ritorno al passato” ma purtroppo come “anticipazione di un futuro” temibile, che contraddice il cieco mito del progresso oggi sostenuto dalla dominante tecnoidolatria.
Per quanto riguarda l’Italia, la sua storia e il suo fascismo-fascismo, bisogna leggere il libro appena uscito di Marcello Flores e Giovanni Gozzini Perché il fascismo è nato in Italia (Laterza, 272 pp., 20 euro). I due storici dichiarano subito che la loro scelta è di valorizzare il rapporto fra storia e scienze sociali: economia, politologia, sociologia, psicologia. Come il mestiere di geografo, anche quello di storico richiede una pluralità e mescolanza di competenze. Più che essere scienza, la storia è racconto che organizza idee, dati e documenti. Per rispondere all’interrogativo che dà il titolo al loro libro, Flores e Gozzini dicono nella premessa che hanno sentito la necessità di usare la psicologia (lo facevano anche Sallustio, Tacito e Plutarco): tanto la psicologia individuale del leader carismatico teorizzato da Max Weber, quanto la psicologia delle masse che ne sono magnetizzate e irrazionalmente gli ubbidiscono (ne hanno parlato Le Bon e Ortega y Gasset).
Quando si cercano i semi, i fondamenti psicosociali prepolitici del fascismo, cioè elementi di fascismo “molecolare” presenti nella società, e in cui si tratta più di mentalità e di struttura caratteriale che di vera e propria ideologia, non si può che ricorrere alle famose ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, il narcisismo e il sadomasochismo di massa. Nel saggio sulla mentalità fascista scritto da Adorno in collaborazione con Horkheimer si legge: “Secondo Freud, il problema della psicologia di massa è strettamente legato al nuovo tipo di afflizione psicologica caratteristica di un’epoca che per ragioni economico-sociali, testimonia il declino dell’individuo e la sua conseguente debolezza. Se non si interessava ai mutamenti sociali, Freud però ricercava entro i confini di quella monade che è l’individuo le tracce della profonda crisi dell’individuo stesso e della sua volontà di cedere senza interrogativi alle prepotenti sollecitazioni e pressioni esterne”.
Oggi prevale un esasperato, folkloristico, carnevalesco individualismo di massa. Si vuole essere individui ma al riparo di una massa. Il problema “antifascista” del futuro prossimo è la formazione di veri individui capaci di sottrarsi senza sofferenza, in felice libertà, alla pressione dei comportamenti sociali dominanti: che siano dovuti a moda, pubblicità, inerzia, ignoranza, propaganda o paura.