dal 1431 al 2022
Ci starebbe proprio bene Giovanna d'Arco fra le ragazze di Teheran
Il rifiuto, il mancato riconoscimento dell'autorità e l’embrione di quello spirito di insubordinazione che seicento anni dopo anima le piazze iraniane. Un libro
Tagliarsi i capelli per mostrare di essere non sottomessa. A rileggere gli atti del processo di condanna di Giovanna d’Arco, appena ripubblicati da Marsilio con succulenta prefazione di Teresa Cremisi, certe volte non sembra neanche di essere nel 1431, ma nel 2022.
Ulteriore conferma che una certa letteratura fatta di documenti storici (dalla pazzesca corrispondenza tra Maria Teresa e Maria Antonietta, con la madre che con premura molto moderna avverte dalla corte viennese la ragazza appena arrivata a Parigi delle mestruazioni prossime venture, ai diari di Samuel Pepys nella Londra del grande incendio, dettagliatissimi su cene, spettacoli di teatro, esecuzioni, ma anche su conversazioni coniugali, adulteri, pentimenti, fino al viaggio in Sicilia di Ibn Jubayr, anno 1185, col racconto dei rapporti tra musulmani e normanni dopo la riconquista) ci riguarda in modo contemporaneo, ed è spesso più sorprendente e rivelatrice di quella di invenzione. Non c’è solo l’eterna questione dell’attualità degli antichi. E’ che, pagina per pagina, botta e risposta dopo botta e risposta, Giovanna si ritrova a difendersi, nelle sei udienze del processo e nei sei interrogatori complementari conclusisi con la condanna per eresia e con il rogo che sappiamo, non tanto di questioni teologiche, o di regalità e sovranità, o di guerra e fatti d’arme; ma sopra a tutto, in modo continuo, di abbigliamento e acconciature. Di vestiti e capelli. La sfida della piccola fanatica di Domrémy al resto del mondo è sul piano di un’immagine che si fa icona, simbolo, rivolta. Da non crederci: leggendo le trascrizioni, l’ossessione dei suoi inquisitori Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, frate Jean le Maistre, vicario dell’Inquisitore di Francia a Rouen, Jean Beaupère, uno degli assessori, è per la sua insubordinazione nel vestiario.
Un’ossessione che richiama in modo formidabile quella degli ayatollah barbuti che reggono patriarcalmente l’Iran di Mahsa Amini, Armita Abbasi, Negin Abdolmaleki, Arnika Ghaem Maghami, Asra Panahi e di tutte le altre torturate, stuprate, massacrate: perché Giovanna si ostina a vestirsi contro le prescrizioni? Perché non si acconcia decentemente come si conviene a una donna? Come mai quel taglio di capelli? Esempio: castello di Rouen, martedì 27 febbraio 1431. Beaupère: “E’ Dio che ti ha ordinato di vestire con abiti maschili?”. Giovanna: “L’abito non vuol dire niente; è cosa secondaria. Nessuno al mondo mi ha ordinato di vestirmi da uomo. Non ho fatto nulla se non per il consiglio di Dio”. Lunedì 26 febbraio: “Accetteresti di indossare un abito femminile?”. “Datemene uno e che me ne possa andare! Altrimenti no. Mi accontento di quello che porto, visto che a Dio piace che lo porti!”. Giovedì 15 marzo: “Continui a chiedere di sentire messa, mi sembra che sarebbe più conveniente se tu ci andassi vestita da donna. Che cosa preferisci: vestirti da donna e sentire messa o rimanere in abiti maschili e non sentire messa?”. “Datemi l’assicurazione che potrò sentire messa se mi vesto da donna e risponderò alla vostra domanda”. Sabato 17 marzo: “Hai detto, Giovanna, che ti vestiresti da donna se ti lasciassimo andare a condizione che ciò piacesse a Dio”. “Se mi lasciaste andare vestita da donna, io mi rivestirei subito da uomo e farei quello che il Signore mi ordinerebbe; per nulla al mondo giurerei di non riprendere le armi o di non indossare abiti maschili”.
E così via, per decine di volte. Scrive Cremisi: “Si dirà, Giovanna stessa cercherà di convincerne i suoi interlocutori, che l’abito virile era più adatto per cavalcare e per la guerra. In realtà Giovanna non dismetterà mai quest’abito maschile, nemmeno durante i soggiorni relativamente lunghi a corte, dove la necessità di vestirsi da uomo veniva meno del tutto”. E nemmeno la scelta corrispondeva a un desiderio di ascetismo e di autopunizione tipicamente medievali, come quelli di certi santi che puntavano al castigo di sé e alla privazione come via per il paradiso. No, “Giovanna, nelle vesti e nelle armi, sembra non disdegnare talvolta il lusso anche sfarzoso. Dirà più volte davanti al tribunale che ‘l’abito non ha importanza’, ma lei stessa attribuisce al suo abito un’importanza sempre crescente, fino a farne un simbolo irrinunciabile: difendere con intransigenza il suo modo di vestire e di acconciarsi (i capelli corti all’altezza delle orecchie) finisce per coincidere con la difesa della sua stessa missione, del suo operato”. Non è fervore religioso insomma che anima questa ragazza (che solo molti secoli dopo, nel Novecento, sarà proclamata santa), non è semplice praticità nei movimenti.
Siamo in presenza di qualcosa d’altro. Cremisi: “Dagli atti di questo processo si rivela una personalità assolutamente incapace di accettare l’autorità, addirittura incapace di riconoscerla. Le gerarchie per Giovanna non hanno senso. Non c’è in lei ribellione nei loro confronti, c’è molto di più: l’ignoranza della loro esistenza o la convinzione della loro totale inutilità. Giovanna è di quelle persone per le quali ubbidienza e ubbidire a priori non significano nulla”. L’embrione di quello spirito di insubordinazione che seicento anni dopo anima le ragazze (e i ragazzi) delle vie di Teheran? In una delle risposte, Giovanna è più esplicita che mai. Al giudice che le chiede: non vuoi vestirti da donna per poterti comunicare e adempiere al precetto pasquale?, risponde: “Non lascerò il mio abito per nessuna ragione. Per ricevere il Signore che differenza fa che io sia vestita da donna o da uomo? Voi non dovete impedirmelo per via del mio abito”. Amen. Che si tratti dei miliziani del Basij o delle guardie del carcere di Rouen, dei turbanti che hanno messo sulla testa dell’Iran o degli inquisitori intenti a reprimere con una pulzella uno dei primi moti nazionali della Storia, la partita è tutta politica. E si gioca sul corpo delle donne.