narrativa mimetica
La prosa deve adeguarsi al linguaggio necessario per il mondo che ha creato
Come devono parlare i personaggi dei romanzi? È il più annoso rompicapo della letteratura, e in particolare della letteratura italofona, che per secoli non ha avuto una nazione entro cui far circolare i parlanti. L'esempio di Manzoni
Come devono parlare i personaggi? E’ il più annoso rompicapo della letteratura, e in particolare della letteratura italofona, che per secoli non ha avuto una nazione entro cui far circolare i parlanti. La prima soluzione per un narratore ingenuo è che i personaggi devono parlare come si parla davvero, corollario del luogo comune secondo cui i personaggi sono persone reali, vengono da chissà quali anfratti a stuzzicare l’autore altrimenti dormiente, al quale assegnano il compito di lasciarli vivere. Balle. Se si sbobina una conversazione origliata in treno per trasformarla in testo, non si ottiene chissà quale epifania ma una verbalizzazione incoerente e sciatta, sufficiente a far chiudere qualsiasi romanzo per noia e sconforto. Controprova: i romanzieri italiani che oggi meglio riproducono nella propria prosa il passo del parlato – Paolo Nori e Ugo Cornia, per dirne due – ottengono quest’effetto con un sagace e raffinato artificio stilistico che, se lo utilizzaste verbatim parlando ai vostri conoscenti, vi piglierebbero per deficiente.
Meglio allora concentrarsi sulla verità effettuale della narrativa, e indagare come parlano i personaggi nei romanzi italiani di successo. Prendiamo a campione Spatriati di Mario Desiati (Einaudi), in quanto attuale idealtipo narrativo patrio, da vincitore del Premio Strega e già capolista delle vendite tricolori. Se lo sceveriamo da pregi e difetti della trama (non pensare alla trama, diceva giustamente Virginia Woolf, la trama non conta), otteniamo parole che si collocano su due piani: il parlato-narrante del protagonista che racconta la storia, il parlato-narrato dei personaggi che interagiscono con lui. Costoro – di là da qualche coloritura folcloristica per personaggi grotteschi, tipo “Ti metti Veleno come cognome?”, “Sei una capa di cazzo” – cedono non di rado alla tentazione di parlare come un libro stampato. Non so come reagirei se nella vita reale una ragazza mi dicesse: “Citavo Analisi in famiglia di Maria Marcone, la storia di una donna del sud che è circondata da parenti maschilisti”. Probabilmente scapperei a guardare Dazn e chiuderei per sempre con i libri e con le donne. Il narratore, con ammirevole dedizione, resta invece innamorato di lei: non è inspiegabile, dato che lui stesso trascende occasionalmente in quella prosa formale, tanto cara ai brigadieri, in cui gli autori italiani si rifugiano per nobilitare qua e là il narrato: “Incontrò una giovane psicologa argentina con la quale intraprese un breve percorso psicoterapeutico”.
Nel romanzo di Desiati accade insomma che il linguaggio dei personaggi si appiattisca su quello del narratore, che a sua volta sembra pendere verso il linguaggio dell’autore. E’, probabilmente, frutto di quel peccato originale iper-realistico e sensazionalista della narrativa italiana contemporanea, che risale al dopoguerra e che il mai abbastanza ascoltato Oreste del Buono individuava nel tentativo di emulare il peggior Hemingway importato da Vittorini in cattiva traduzione. Se prendiamo invece Poco a me stesso di Alessandro Zaccuri (Marsilio), sicuro vincitore dello Strega se il premio fosse assegnato da me come giudice monocratico, notiamo che invece è la lingua narratore (eterodiegetico) ad andare verso il linguaggio dei personaggi: all’ambientazione ottocentesca corrisponde una prosa convoluta, infiorettata, non immune da finezze vintage come l’inserimento della vocale superflua in “leggiero”. Lì il problema del linguaggio dei personaggi viene subito dichiarato direttamente dal narratore: “I personaggi della nostra storia parleranno grosso modo un’unica lingua, che ci sforzeremo di adeguare a un uso mediano, ma si confida non mediocre, dell’italiano del tempo”. E’ un’urgenza sospetta e infatti c’è il trucco: Poco a me stesso è un formidabile romanzo storico su Manzoni ambientato in un mondo parallelo in cui Manzoni non esiste; ragion per cui l’autore – che ha meditato il libro per trent’anni, abbastanza da riuscire a scollarsi dalla voce narrante – può avvertire in postilla che la prosa utilizzata si trasfonde in quella che sarebbe stata la narrativa italiana se, senza Promessi sposi, avessimo dovuto continuare a scrivere scimmiottando i Dickens, i Balzac, i Dumas, i Thackeray.
Significa, di là dalla godibilità del romanzo, che la prosa narrativa dev’essere mimetica, non imitando la realtà (né tampoco un modello letterario a capocchia) ma adeguandosi al linguaggio necessario al mondo che ha creato, come fece Manzoni. Prima o poi tutti gli scrittori italiani dovrebbero leggerlo: da adulti.