Il gelo che incombe in Ucraina potrebbe costare caro a Putin. Memorie dalla Guerra civile russa
Più crudeli di tutto nei conflitti furono gli inverni, che hanno sconfitto Napoleone e Hitler. Ma anche Stalin quando voleva dare una lezione alla piccola Finlandia. Eppure non basta a fermare le atrocità
Più crudeli di tutto furono gli inverni. “Ghiacciano i baffi. Diviene schiuma ghiacciata il sudore dei cavalli (…) La temperatura è scesa a meno 40, sia in gradi Fahrenheit che in gradi Celsius, l’unico punto i cui i due sistemi di misurazione coincidono”, osserva nel suo diario il capitano John Kennedy, un ufficiale irlandese inviato da Churchill ad assistere i Bianchi nella guerra contro i Rossi. Il gelo era sceso dalla Siberia all’improvviso. Prima del solito. “Nevica e si gela forte”, annotava Kennedy già in data 7 novembre 1919. “Urlavano e urlavano le tempeste di neve dal nord”, per dirla con Bulgakov, l’autore de L’Armata a cavallo.
“Armata di volontari” la chiamavano. Capita, quando si ritiene inopportuno chiamare le cose col proprio nome. Allora dicono “operazione speciale” anziché guerra. Era guidata da ben 36 generali, ciascuno impegnato a fare lo sgambetto all’altro, ad arricchirsi, a garantirsi la pensione con un gruzzolo in occidente. La guerra era già persa. “Sembra che ci siano ben pochi dubbi su una completa vittoria dei bolscevichi in un futuro prossimo”, scriveva Churchill, ministro della Guerra del conservatore Lloyd George, contraddicendo le sicurezze di soli pochi mesi prima. Aveva già cessato l’invio di armi. I suoi protetti si stavano ritirando. L’ultimo treno da Kharkiv era stato preso d’assalto, molti si erano arrampicati sui tetti dei vagoni. Morirono congelati. Sui binari si formavano venti centimetri di ghiaccio, ghiacciavano le tubazioni nelle locomotive, a meno che non venissero tenute costantemente sotto pressione. Gli inverni sono sempre stati decisivi nelle guerre in Russia, in Finlandia e in Ucraina. Hanno sconfitto via via Napoleone e Hitler. Ma anche Stalin quando voleva dare una lezione alla piccola Finlandia. Infieriscono soprattutto su chi non sta vincendo, si sta ritirando. Sono durissimi per entrambe le parti. Ma per la parte che già ha problemi di logistica e di rifornimenti sono molto più duri che per quella avversa. Era inverno, ma alla fine, quando lo scorso febbraio hanno attaccato i carri russi.
Molti esperti militari ritengono che l’inverno che arriva sarà più duro con i russi che con gli ucraini, potrebbe costare più caro a Putin che a Zelensky. La sola cosa che l’arrivo dell’inverno non riusciva a far cessare erano i massacri e le rappresaglie. Da una parte e dall’altra ci sia accaniva ferocemente contro i nemici, i prigionieri, ma soprattutto la popolazione civile. Si giustiziavano sommariamente i moltissimi disertori, i sospetti di favorire o aver favorito la parte avversa, i “traditori”, le spie, i profittatori, i saccheggiatori. Ma si massacrava anche giusto per dare l’esempio, rendere lampante chi comanda, chiarire agli occhi di tutti chi in un determinato momento aveva la meglio sull’altro. A ogni città o villaggio conquistato, perso, o riconquistato, in un atroce andirivieni durato oltre due anni, si riaprivano fosse comuni scavate dall’occupante immediatamente precedente, si scoprivano camere di tortura, i segni di esecuzioni sommarie, di sevizie atroci, mutilazioni, si raccoglievano le prove di ruberie, requisizioni forzate, grassazioni, stupri, rappresaglie, di episodi di puro sadismo.
Un’epopea nell’epopea della Guerra civile russa è quella delle eroine combattenti, spesso più feroci e crudeli dei loro uomini
Quella, di giusto un secolo fa, fu “la guerra più crudele che abbia insanguinato l’Europa dalle guerre di religione in poi”, per dirla con Antony Beevor, che nelle oltre 600 pagine del suo libro più recente, Russia: Revolution and Civil War 1917-1921 (Weidenfeld & Nicolson 2022), raccoglie una quantità impressionante di episodi, testimonianze di prima mano, grazie anche al contributo della sua ricercatrice Ljuba Vinogradova, la quale, accanto alla enorme quantità di materiale già pubblicato, ha passato al setaccio oltre trenta archivi, musei e biblioteche, dalla Siberia a Stanford. I nomi delle località sono indicati con la vecchia trascrizione dal russo. Ma è impossibile non riconoscere, una per una, le città della cronaca quotidiana di orrori dall’Ucraina, e anche le vecchie ferite che si sono riaperte.
Dagli archivi è spuntato anche molto materiale fotografico poco conosciuto. Tra le foto che illustrano il volume (ancora non tradotto in italiano) dello storico britannico c’è una vera e propria galleria di ritratti di generali. Molti con al fianco la loro bella. L’ammiraglio Kolčak è costantemente ritratto accanto alla sua giovanissima amante, la poetessa Anna Timiryova. Il colonnello Buizin posa accanto alla moglie, vestita da cosacco, armata di tutto punto. Non da meno erano i bolscevichi. La flotta rossa sul Volga era comandata da Fedor Raskolnikov, affiancato dalla moglie Larissa Reissner, commissario politico. Un’epopea nell’epopea della Guerra civile russa è quella delle eroine combattenti, spesso più cattive, feroci e crudeli dei loro uomini.
Tra le foto ce n’è una che mi ha colpito. Per una ragione non direttamente legata all’argomento di cui sto scrivendo. E’ un’immagine dell’allora colonnello Andrei Shkuro, in uniforme da cavalleria cosacca, con sciabola e spada più corta alla cintura, e con in mano il berretto di pelle di lupo. La sua sotnia (centuria di cavalleria cosacca) veniva chiamata “i lupi”, causa il berretto, e soprattutto la ferocia. Reclutavano nel territorio che oggi è Ucraina, invitando tutti i cosacchi abili a presentarsi nel giro di mezz’ora con i propri cavalli di fronte alla chiesa del villaggio. Chi non si presentava sarebbe stato passato per le armi. Divenuto generale, si sarebbe distinto per la sua spietatezza e, insieme, i suoi gusti da bon viveur. Presa una città, requisiva per prima cosa gli alberghi e i teatri. Famose erano le orgie in cui, assieme ai propri ufficiali, banchettava e consumava fiumi di alcool, in compagnia delle allegre donnine del luogo. Amava il bel canto, la cucina prelibata e assistere alle torture. Odiava ferocemente i comunisti e, soprattutto, gli ebrei. Era molto benvoluto dai suoi soldati perché gli lasciava libertà assoluta di saccheggio e stupro. I “borghesi” di una delle città da lui “liberate” erano venuti a ringraziarlo, offrendogli una discreta somma di denaro. Lui aveva passato il mazzo di banconote alle sue guardie del corpo, dicendogli a voce alta: “Ecco, andate a divertirvi con le puttane”. Poi si era rivolto ai maggiorenti accorsi a ringraziarlo: “Io verso sangue per darvi tranquillità. Pensate davvero che bastino pochi spiccioli? Datevi da fare per trovarmi almeno 10 milioni”.
Nell’iconografia sono impressi i treni blindati e armati. Allora come oggi in Ucraina, è decisivo il controllo dei principali nodi ferroviari
Shkuro, come tutti i comandanti della Guerra civile russa, si spostava, lungo le enormi distanze, in treno. Così come in treni blindati si spostava infaticabile, da un fronte all’altro, il commissario del popolo alla Guerra, Lev Trockij. Nell’iconografia della Guerra civile in Russia, e nell’immaginario degli spettatori al cinema e dei lettori di graphic novel (indimenticabili le avventure del Corto Maltese di Hugo Pratt lungo la transiberiana) sono impressi i treni blindati e armati. Del resto la Guerra civile era partita da un esercito straniero che controllava la Transiberiana, la Legione cecoslovacca. L’importanza del treno è la ragione per cui, allora come oggi in Ucraina, è decisivo il controllo dei principali nodi ferroviari. Lo scrittore Ivan Nazhivin racconta come Shkuro festeggiò la sua promozione a generale: “Il suo treno personale era composto da diversi vagoni in ottimo stato, che trasportavano ben due orchestre: un’orchestra sinfonica e una banda militare. Sul suo vagone ospitava un’intera squadra di cantanti di cabaret, tutte truccate, e si consumavano orgie giorno e notte”. Mentre il treno rallentava avvicinandosi al centro minerario di Donetsk, Shkuro, ubriaco marcio, si affacciò al finestrino e, facendo un brindisi rivolto a un gruppo di minatori neri di carbone, sporchi e malmessi, iniziò a cantare: “Cento città metterò a sacco con la mia banda / Scorri, scorri, amabile vodka / Sei tu la mia gioia”. “Urrà, Urrà, Urrà” gli fecero eco i suoi ufficiali, mentre i minatori rimanevano in silenzio.
Ebbene, la foto di Shkuro mi è stranamente familiare. Biondo, con i capelli elegantemente ondulati, baffi ben curati, gli occhi chiari, assomiglia tremendamente alle foto che ho di mio padre a quell’età. Non è la prima volta che mi chiedo da dove provengano quelle fattezze cosacche, slave, che non coincidono molto né con le mie né con quelle del resto della mia famiglia. Che sia successo qualcosa di non esattamente gradevole a qualche mia antenata ebrea nel corso di uno dei frequentissimi pogrom perpetrati dai cosacchi da quelle parti?
A differenza della cavalleria russa regolare, che cavalcava al trotto, alla maniera europea, con le ginocchia piegate, i cosacchi cavalcavano con staffe lunghe, praticamente in piedi, col peso del corpo in avanti. Così potevano percorrere senza affaticarsi distanze molto lunghe. La Guerra civile russa era stata in buona parte uno scontro di bande di cosacchi contro altre bande di cosacchi. Si affrontavano centinaia di eserciti, in formazioni di cavalleria guidate da migliaia di atamani (da hetman, capo cosacco). Non c’erano solo i Bianchi e i Rossi. Prevalevano i Verdi, così chiamati perché combattevano alla macchia, nei boschi, spesso in franchigia, spesso passando disinvoltamente da uno schieramento all’altro. Operavano già da prima che venisse formato l’esercito volontario di Denikin, finanziato, armato e approvvigionato, addestrato e anche inquadrato da ufficiali britannici, continuarono ad operare a lungo anche a Guerra civile finita, cacciati come “banditi” dall’Armata rossa. C’erano gli americani in Siberia e i francesi nel Mar Nero. Tutta la Russia pullulava di foreign fighters. Non era semplice come avere a che fare con i ceceni e la divisione Wagner da una parte e la divisione Azov dall’altra. In comune avevano l’approvvigionarsi forzoso a spese dei contadini e delle popolazioni locali (che li odiavano qualunque fosse il loro colore), e la ferocia inaudita nei confronti di chi sgarrava, resisteva o non pagava. Tra le figure più famose, l’atamano Nestor Makhno, l’anarchico che aiutò prima i Rossi e poi i Bianchi, imperversando nella regione attorno a Zaporizhzhia.
Memorie e diari lo rappresentano all’attacco, sparando all’impazzata, su un carro a cavalli con montata sopra una mitragliatrice – una specie di carro armato contadino – costantemente ubriaco e urlante oscenità, incurante delle pallottole (si creò attorno alla sua figura anche un mito di invulnerabilità). Lo immagino interpretato da Gian Maria Volonté se Sergio Leone avesse ambientato i suoi film nella steppa anziché nel West. Giudicava ed eseguiva di persona le condanne a morte. Non prendeva prigionieri. Avevano portato al suo cospetto un gruppo di prigionieri appartenenti ad una banda ribelle rivale. “Che volete che ne faccia. Fateli a pezzi, non voglio più vederli…”. Fu obbedito, letteralmente, furono macellati. Una volta i suoi catturarono un’ottantina di ufficiali “bianchi”. Questi, ben sapendo che sarebbero stati uccisi chiesero di vedere l’atamano, non per chiedere grazia, ma per sfidarlo. Uno riuscì persino a schiaffeggiarlo. Makhno li uccise tutti con le sue mani. Un pope lo fece bollire vivo nella caldaia di una locomotiva. Solo uno dei suoi prigionieri si salvò. Ebbe la prontezza di sferrare un calcio alle parti basse del cosacco che stava per assestargli la sciabolata fatale, si impadronì della sua arma e lo uccise. Makhno, colpito dal suo coraggio lo graziò e lo arruolò. C’è tra gli storici chi sostiene che la violenza inaudita, anzi meticolosamente studiata, fosse un modo per acquisire il consenso.
C’è tra gli storici chi sostiene che la violenza inaudita tra Bianchi e Rossi, meticolosamente studiata, fosse un modo per acquisire il consenso
In fatto di ferocia e crudeltà facevano a gara, da una parte e dall’altra. Esemplare, tra gli episodi raccontati nel libro di Beevor, l’ingresso a Kyiv, momentaneamente abbandonata dall’Armata rossa, dei nazionalisti ucraini di Petljura, seguiti dai Bianchi di Denikin e da un distaccamento di cosacchi del Don. I cosacchi del Don, rivali storici dei cosacchi di Zaporizhzhia, accortisi che ad accoglierli ci sono gli uomini di Petljura, sguainano le sciabole e li caricano. In un’altra città arrivano i Bianchi, vengono festeggiati dai burzhoi (borghesi) locali, vengono applauditi quando impiccano gli ebrei, complici per antonomasia dei Rossi, e distribuiscono quanto era stato confiscato dai bolscevichi. Se ne vanno. Viene avvistato un altro distaccamento di cosacchi in arrivo. Tutti in piazza felici di accoglierli, dispiegando striscioni zaristi. Errore spiegabile: avvolti nei loro mantelli, non c’era modo di distinguere i cosacchi di una parte e dell’altra. A volte si confondevano loro stessi. Ma questi sono cosacchi “rossi”, della cavalleria di Budënnyj. Estraggono le sciabole, fanno a pezzi gli accorsi a dargli il benvenuto. Un proclama ingiunge di restituire la proprietà dello stato, pena l’impiccagione. Tutti si liberano nottetempo dei sacchi di farina ricevuti dai Bianchi… I bolscevichi non erano da meno in fatto di esecuzioni sommarie, torture, stragi indiscriminate, anche di donne e bambini. Anzi, risparmio al lettore i particolari. “Spesso i Bianchi sono stati rappresentati come il peggio dell’umanità. Tuttavia, quanto a disumanità spietata, i bolscevichi erano imbattibili”, riassume Beevor. Le rivoluzioni del 1917 erano state, in confronto, una faccenda da gentiluomini.