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Il foglio del weekend

Viaggio nella banalità del male. Così Hannah Arendt ha dato corpo al pensiero puro

Sandra Petrignani

In fuga dalla Shoah scrisse “Noi rifugiati”, oggi di nuovo in libreria: una riflessione sul dolore dei senzapatria. Per prima ha riconosciuto la radice comune di tutti i totalitarismi

"Hannah Arendt è considerata oggi la filosofa più significativa del XX secolo”. Con questa asserzione inconfutabile si chiude il saggio di Donatella Di Cesare che accompagna il breve intenso scritto di Arendt del 1943 Noi rifugiati, riproposto ora con Einaudi. È decisamente il momento giusto per tornare a riflettere sul grande tema che affronta: chi sono, cosa rappresentano i senzapatria che – oggi come ieri – fuggono da situazioni insostenibili, fatte di miseria, guerre, persecuzioni, violenze, e che cercano un rifugio altrove, vedendosi il più delle volte respinti o isolati in non-luoghi, stazioni di transito invivibili, privati di ogni diritto fuorché quello di sopravvivere. Fantasmi scomodi e mal tollerati, relegati prima di tutto in un plurale che ne annulla personalità, vicende individuali, sentimenti, intelligenza, dolore. Un plurale anonimo che rende più lieve il respingimento a chi potrebbe accoglierli e invece li allontana dalle proprie preoccupazioni come dal proprio territorio con odio o solo noncuranza. 

 

La forte attualità è del resto una caratteristica dell’intera opera di questa filosofa (lei però preferiva definirsi teorica della politica): quando scorge una comune radice nel fascismo e nello stalinismo, cosa che ormai diamo per scontata; o quando prende le distanze dalla fiducia irrazionale nel progresso scientifico come progresso illimitato dell’umanità, e che sia una fiducia irrazionale lo abbiamo oggi più che mai sotto gli occhi; o se si confronta con la decretata “morte di Dio” sostenendo che a essere morto è il modo in cui si è pensato a Dio per centinaia di anni secondo una metafisica che non convince più l’umanità moderna; quando indaga la connessione fra sfera privata e sfera pubblica e comprende che la società di massa distrugge entrambi gli ambiti, quello pubblico e quello privato… È, il suo, un pensiero complesso ma mai astratto. C’è un coinvolgimento personale, una capacità introspettiva che illumina l’altro da sé e il mondo esterno in un costante interrogarsi sui problemi che contano: il contrapporsi di bene e male nel singolo individuo, la difficoltà di conciliare pensiero e azione, il concetto di libertà in una società sempre più di massa, schiava del conformismo imposto da manipolazioni consumistiche e inevitabilmente politiche. 

 

Era ebrea, ed era una rifugiata (emigrò in America nel ’41 grazie anche all’interessamento del primo marito, Günther Anders, altro filosofo allievo come lei di Heidegger, che l’aveva preceduta nella fuga negli Usa dall’Europa in bilico sull’abisso). Però nel suo saggio non dice io, dice noi, noi rifugiati, per sottolineare la risonanza collettiva del discorso: “Abbiamo perso la nostra dimora, vale a dire l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il nostro lavoro, cioè la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, ossia la naturalezza delle reazioni, l’espressione spontanea dei sentimenti”.

 

Se aveva spesso sottolineato di parlare solo a nome di se stessa, voleva con questo indicare di non appartenere a nessuna scuola o istituzione. E aveva pagato il lusso di una posizione tanto isolata con una lunga esclusione accademica, così come aveva faticato a essere presa sul serio dai circoli filosofici che erano esclusivamente maschili. Anzi, a questo proposito, mi permetterei di ampliare la definizione di Donatella Di Cesare in questo modo: “Hannah Arendt è considerata oggi uno dei filosofi più significativi del XX secolo”. Per due motivi: perché è gioco troppo facile essere prima fra le filosofe di prestigio, che si contano anche nell’ultimo secolo sulle dita di una mano; e perché il suo contributo ha aggiunto qualcosa di nuovo e fondamentale alla storia del pensiero in generale. (Con tutto ciò, capisco molto bene il desiderio di rivendicarne il sesso nella declinazione al femminile della parola filosofo).

 

Nei primi anni Settanta, anni di contestazione e di femminismo – per quanto Arendt rifiutasse radicalmente di legare il suo pensiero al movimento femminista – era motivo di fierezza sentir risuonare la voce autorevole di una donna nel dibattito culturale dominato da presenze maschili. Magari sapevamo pochissimo delle sue teorizzazioni, però lei c’era, era ancora viva – morì alla fine del 1975, ad appena sessantanove anni – ed aveva finalmente conquistato un notevole peso intellettuale. Le cronache che Hannah Arendt aveva scritto del processo al nazista Adolf Eichmann, fra i maggiori responsabili dell’Olocausto, scovato dal Mossad in Argentina, processato in Israele e condannato a morte per impiccagione il 31 maggio del ’62, erano uscite a puntate sul New Yorker e poi erano state rielaborate e raccolte in un libro che aveva fatto scalpore, La banalità del male, tradotto in Italia da Feltrinelli nel ’64. Ed era stata dura per lei far accettare – prima di tutto agli amici ebrei – la scoperta denunciata già nel titolo: non c’è bisogno di essere creature demoniache per macchiarsi delle colpe peggiori, il carnefice può avere una faccia domestica, quella di un uomo qualsiasi, perché il male si annida negli esseri umani con facilità “banale”, è radicato nella loro natura, e s’insinua qualche volta persino nelle vittime, che possono cedere a compromessi e tradimenti pur di salvarsi.

 

Eppure: “Ha senso soltanto il Bene” diceva un’altra grande irregolare della filosofia, Simone Weil. E questo pensiero riecheggia fortemente nelle riflessioni di Arendt, il pensiero forse più alto che un essere umano possa concepire, anche se Hannah, a differenza di Simone, non insegue la perfezione impossibile della santità, e tanto meno avrebbe seguito la “collega” nel vertiginoso insegnamento cristiano: “Ama il tuo nemico come te stesso”. Nei Quaderni e diari 1950-1973 (Neri Pozza) riflette: “Si può perdonare soltanto chi si ama”. Eppure aveva fatta sua la frase che chiude La critica della ragion pratica del suo amato Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Ma la legge morale è umana. Se il Bene ha qualcosa d’impraticabile e superiore, il male è alla portata di tutti e si può solo cercare di correggerlo, arginarlo, o punirlo. Oltretutto si nasconde dietro mille giustificazioni, come l’obbedienza a ordini superiori, per esempio. Eichmann al processo aveva protestato la propria innocenza dicendo: “Se la cosa si doveva fare, era meglio farla bene e con ordine”. E anzi osava sostenere che “la bravura con cui il suo ufficio sapeva coordinare le evacuazioni e le deportazioni aveva realmente aiutato le vittime; aveva alleviato le loro sofferenze”.

 

Hannah l’aveva osservato con la distanza di un entomologo che scruta l’oggetto di studio al microscopio, e anche questa voluta mancanza di passionalità, questa spietata, eloquente soppressione di commenti emotivi aveva irritato tanti ebrei, e le aveva fatto perdere diversi amici. Come Gershom Scholem che in una lettera da Gerusalemme, l’accusò di “insensibilità”, di aver usato nel suo libro “un tono sconveniente”. Hannah aveva replicato con un orgoglio a lei connaturato, ma che spesso veniva interpretato come arroganza: “Il guaio è che sono indipendente (…), non appartengo ad alcuna organizzazione e non parlo mai che in mio nome”, non senza chiarire che pur avendo sempre considerato l’ebraicità uno dei dati reali e indiscutibili della sua vita: “Non ho mai ‘amato’ alcun popolo, alcuna collettività (...) Io amo unicamente i miei amici, e la sola specie di amore che conosco, e nella quale credo, è l’amore per le persone”. Questo solo poteva opporre al “male radicale” che le aveva mostrato il nazismo, un male assoluto “che la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire”.

 

Aveva fatto anche lei un lungo viaggio nella banale malvagità umana attraverso l’Europa sconvolta da Hitler, dall’antisemitismo e dalla guerra. Dopo un periodo in campo di internamento, nella Francia invasa dai tedeschi, era fuggita ritrovando per caso il marito (il secondo), il filosofo e poeta Heinrich Blücher, e attraversando con lui Spagna e Portogallo era riuscita ad avere gli agognati documenti per potersi imbarcare a Lisbona, approdando infine a New York. Era per entrambi la salvezza, ma anche l’esperienza di nuove difficoltà legate allo status di rifugiati, “una nuova specie di esseri umani”, scrive Arendt nel suo saggio, “quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici”.

 

Ma era una donna determinata e fortissima. Imparò l’inglese velocemente, cominciò a lavorare per una casa editrice curando fra l’altro la pubblicazione dell’opera di Kafka (la letteratura sarà sempre uno dei suoi più accesi interessi). Rinsaldò vecchie amicizie con altri esuli, ne strinse di nuove, importantissime, come quella con la scrittrice americana Mary McCarthy. E soprattutto divenne l’autrice di un testo fondamentale come Le origini del totalitarismo, del ’51, che fece gridare al miracolo (“è un capolavoro” esplose la critica, “Arendt è paragonabile a Marx”) e che a quarantacinque anni le diede un’improvvisa notorietà. Ma lei non voleva essere riconosciuta per strada ed evitava fotografie e interviste televisive, secondo un atteggiamento schivo che W. H. Auden, grande poeta e turbinoso amico – omosessuale ma di lei innamorato – canzonò simpaticamente in versi così: “Private faces in public places / are wiser and nicer / than public faces in private places” (facce private in luoghi pubblici risultano più intelligenti e attraenti di facce pubbliche in luoghi privati).

 

Era sempre stata una conquistatrice, senza essere una seduttrice. All’università di Marburg, brillante studentessa che fuma la pipa, mentre tutti s’innamorano di lei, lei s’innamora del venerato professore Martin Heidegger, di diciassette anni più vecchio e da sette già sposato. È una relazione segreta destinata a segnarla profondamente persino quando il coinvolgimento erotico sarà finito e lei si sarà sposata per la seconda volta (il primo matrimonio con Günther Anders era stato per ripicca verso  l’unico grande amore, Heidegger appunto, che non intendeva lasciare la moglie). Un ritratto di quella Hannah ventiduenne dagli occhi verdi e i mossi capelli castani lo scrisse di getto proprio Anders a settantatré anni – sconvolto dalla morte improvvisa dell’ex moglie con cui non aveva mai smesso di restare in contatto – in un toccante brevissimo (e bellissimo) memoir pubblicato postumo, La battaglia delle ciliegie (Donzelli): “Allora era al contempo profonda, sfrontata, gioiosa, avida di dominio, malinconica, amante del ballo – non mi assumo nessuna responsabilità per le apparenti contraddizioni – lei era così”.

 

Ed era troppo esuberante per lui, a cui aveva voluto bene senza amarlo perché lo trovava troppo faticoso e malinconico. Heidegger invece l’aveva stregata, incarnazione di un padre che Hannah aveva perduto troppo presto senza riuscire a elaborare il lutto, un dolore troppo lacerante per il cuore di una bambina e nascosto dietro un’apparente indifferenza. Di quella terribile esperienza le era rimasta una vulnerabilità sentimentale che la biografa Elzbieta Ettinger, in Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d’amore (Garzanti), riassume così: “Per quanto fosse una donna indipendente e anticonformista vedeva ancora gli uomini, nella vita privata, nel loro ruolo tradizionale”. E molto, agli uomini, fu disposta a perdonare, soprattutto all’autore di Essere e tempo. Nel novembre del 1955 scrive a Blücher col quale a questo punto era sposata da sei anni: “Come sai, io sono pronta a comportarmi verso Heidegger come se non avessi mai scritto una parola e non dovessi mai scriverne una”. Il successo di Le origini del totalitarismo era rimbalzato in Europa e il libro era stato tradotto in Germania. Ne aveva mandato una copia a chi continuava a considerare Maestro, ma Heidegger non si era fatto vivo nemmeno con un biglietto.

 

Era profondamente offeso dalla teoria sostenuta da Hannah nel testo: perché lui non vedeva somiglianze fra il nazionalsocialismo (che aveva apprezzato) e il comunismo (che aborriva). Quando poi Arendt pubblica in tedesco Vita activa nel 1960, di nuovo gli scrive rivelandogli che avrebbe voluto dedicarglielo, “se i rapporti tra noi non fossero stati sfortunati”, perché è un libro che gli “deve, sotto ogni aspetto, quasi tutto”. Ancora una volta la risposta di lui è il lungo silenzio di una nuova rottura. E lei con l’altro suo amatissimo maestro e ormai amico, Karl Jaspers, che aveva un carattere dolce e accogliente, si sfoga arrabbiata, ma anche incapace di incrinare il mito che si è costruita dell’antico amante: “So quanto sia insopportabile per lui che il mio nome appaia in pubblico, che io scriva libri, ecc. Per tutta la vita io l’ho praticamente imbrogliato, comportandomi sempre come se tutto questo non esistesse, e come se, per così dire, non fossi capace nemmeno di contare fino a tre, tranne quando si trattava di interpretare le sue stesse cose: allora per lui era sempre molto gradito che si vedesse che sapevo contare fino a tre, e certe volte fino a quattro. Ma improvvisamente l’imbroglio mi è venuto a noia, ed ecco che mi sono presa un pugno sul naso. Per un momento sono stata furiosa ma ora non lo sono più per niente. Piuttosto sono dell’opinione che in qualche modo me lo sono meritato”.

 

Heidegger avrebbe in seguito lodato l’intelletto di Hannah soltanto una volta, per il saggio su Walter Benjamin ora raccolto in Il futuro alle spalle (il Mulino), cui erano stati legati entrambi. E nelle ultime lettere che si erano scambiati, Martin si mostrava più tenero preoccupandosi della salute di lei. Mentre Hannah continuava a gratificarlo: “Nessuno sa tenere una lezione come sai fare tu, e nessuno ha mai saputo farlo prima di te”. 

 

Eppure era una donna mentalmente “virile”. Come lo era la sua migliore amica, Mary McCarthy, dalla quale si faceva aiutare per la revisione dei testi, non fidandosi del proprio inglese scritto, appesantito da una costruzione delle frasi “alla tedesca”. Erano entrambe passionali e sincere, autentiche, intelligentissime, molto corteggiate, molto sposate, coscienziosamente infedeli. Spesso sole contro tutti per originalità e spregiudicatezza di pensiero. La loro amicizia durò un quarantennio, e s’interruppe soltanto con la morte di Hannah, che fra le due era la maggiore di pochi anni. Soprattutto erano provviste entrambe delle tre doti che Arendt considerava imprescindibili perché una persona le andasse a genio: ingenuità, indipendenza, coraggio. Lei non poteva non amare le persone che riuscivano – pur con vasta esperienza di mondo – a conservare una sorta di innocenza infantile. E tutte e due hanno amato molto gli uomini, pensando però entrambe (parole di Arendt): “Sono un fardello parecchio fastidioso, solo che non se ne può fare a meno”. (È davvero splendida la biografia Hannah Arendt, 1906-1975. Per amore del mondo di Elisabeth Young-Bruehl, edita da Bollati Boringhieri, che racconta fra il moltissimo altro i dettagli di questa intesa fra donne speciali).

 

Ci sarà Mary a sostenere Hannah nell’infuriare delle polemiche su La banalità del male. Si trovano a Chicago insieme quando John Kennedy viene assassinato a Dallas e guardano i funerali in televisione, preoccupate che quel delitto rappresenti la miccia d’un rinascente “fanatismo anticomunista”. C’è Mary quando Blücher (anche lui infedelissimo, senza che le reciproche infedeltà minassero minimamente il patto di ferro del loro matrimonio) muore improvvisamente. È stroncato da un infarto nell’autunno del 1970. Hannah è disperata. “E adesso come farò a vivere?” si chiede. Raramente parlava dei suoi sentimenti, non si apriva nemmeno con gli intimi, ma con Mary lo fa. Il 22 novembre di quell’anno le dice in una lettera: “La verità è che sono completamente esausta, se intendi questa parola non come un superlativo di stanchezza.

 

Infatti non sono stanca, almeno non molto stanca; solo esausta. Funziono regolarmente, ma so che il minimo accidente potrebbe mandarmi a gambe all’aria. Non mi pare di averti mai detto che per dieci anni ero stata nel costante terrore che avvenisse una morte improvvisa, proprio come questa. Era una paura spesso molto simile a un vero panico. E dove prima c’era quella paura, e quel panico, ora c’è solo un vuoto totale”. In primavera Mary la porta con sé e con suo marito (il quarto, un diplomatico) in viaggio in Sicilia. Al ritorno, in maggio, Hannah le scrive: “Durante questi ultimi mesi ho spesso pensato di me stessa: frei wie ein Blatt im Winde, libera come una foglia al vento. E continuamente pensavo anche: non fare niente contro questo, così è e basta, non permettere a nessuna ‘volontà autocratica’ di interferire”. Alla fine del 1973, dopo la scomparsa di altri due amici, il poeta W. H. Auden e il critico Philip Rahv, che era stato un amante di Mary, le confessa ancora una volta emozioni segrete, un profondo senso di solitudine, la tristezza che la invade di fronte alla perdita di tante persone che erano state importanti nella sua vita: “Devo confessare che questo processo di defoliazione (o deforestazione) mi pesa. Come se invecchiare non significasse, come ha detto Goethe, una graduale ritirata dall’apparenza – il che non mi dispiacerebbe – bensì la graduale, anzi improvvisa trasformazione di un mondo pieno di visi familiari (non importa se di amici o di nemici) in una specie di deserto, popolato da facce sconosciute”.

 

Una delle presenze che le manca di più è l’autore dei Sonnambuli, scomparso nel ’51. Resta di questa amicizia unicamente intellettuale (malgrado Hermann Broch fosse un seduttore compulsivo), un carteggio che è traccia di stima profonda, spirito, fiducia, scambio di idee e di pareri letterari, una testimonianza preziosissima per capire quanto Hannah fosse competente anche di poesia e narrativa: considerava Broch “l’anello di congiunzione fra Proust e Kafka, vale a dire tra un passato che abbiamo irrimediabilmente perduto e un futuro che non è ancora tra noi”. Parlava in particolare de La morte di Virgilio, “ponte gettato sull’abisso di spazio vuoto tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’” (Arendt-Broch. Carteggio 1946-1951, Marietti). E Broch diceva di lei: “Non si dovrebbe permettere a nessuno di sapere così tante cose!”.

 

Era in compagnia di alcuni amici anche la sera della morte, il 4 dicembre del 1975 nell’appartamento newyorkese di Riverside Drive, un quartiere che era sempre più violento. Aveva paura di essere aggredita uscendo di casa e le faceva paura restare sola. Stava servendo il caffè, quando un accesso di tosse la spinse priva di coscienza contro lo schienale della poltrona. Prima che il medico suonasse alla porta, arrivò un infarto a chiuderle gli occhi per sempre. Nel suo studio, sulla macchina da scrivere, era infilato il foglio bianco in cui si accingeva a comporre l’ultima parte, intitolata Giudicare, del suo ultimo libro rimasto incompiuto. Il titolo generale era La vita della mente (pubblicato in Italia dal Mulino nell’87). Le parti già scritte s’intitolavano Pensare e Volere. Erano per lei le tre attività fondamentali della vita spirituale, contrapposta alla vita attiva. Nell’introduzione all’edizione americana McCarthy, che era stata nominata curatrice testamentaria dalla stessa Arendt, racconta la loro amicizia. “A occhi chiusi, parlo con un fantasma quanto mai vivente, che ha fatto di me la sua dimora…”.

 

Le sarebbe sopravvissuta quattordici anni. Nell’orazione funebre pronunciata in pubblico, dopo aver tessuto le lodi intellettuali della filosofa scomparsa, si concesse una descrizione della donna: “Attraente, seducente, femminile (…) Aveva una passione per le scarpe; in tutti gli anni della nostra conoscenza, penso abbia avuto un solo callo. Le sue gambe, i suoi piedi e le sue caviglie esprimevano rapidità, decisione. Bastava vederla una volta ritta su una pedana da conferenze per essere colpiti da quei suoi piedi, polpacci, caviglie che sembravano tenere il passo coi suoi pensieri. Mentre parlava, camminava su e giù per la pedana, a volte con le mani sprofondate nelle tasche, come uno che passeggia da solo, meditando. Quando i regolamenti di sicurezza lo consentivano, fumava, muovendosi per la pedana con la sigaretta infilata in un corto bocchino, inspirando, di tanto in tanto, pensosamente, la testa rovesciata all’indietro, come arrestata da una nuova, inaspettata idea”.

 

Anche Julia Kristeva nel libro che le ha dedicato (Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli) insiste sul suo genio femminile: “… lungi dall’essere una ‘pensatrice di professione’, agisce il proprio pensiero nel cuore della propria vita: si è quasi tentati di vedere in questo tratto tipicamente arendtiano anche una peculiarità femminile; è proprio vero, infatti, che la rimozione, detta ‘problematica’, impedisce alla donna di isolarsi nelle torri d’avorio ossessive del pensiero puro, per ancorarla alla concretezza dei corpi e ai legami con gli altri”.
E comunque La vita della mente si apriva con un’epigrafe tratta da Che cosa significa pensare dell’imprescindibile Martin Heidegger. Quattro frasi che richiamano “lo scandalo della ragione” di kantiana memoria, e da cui Hannah Arendt si sentiva particolarmente rappresentata: 

 

Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze.
Il pensiero non comporta una saggezza utile alla vita.
Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo.
Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione.

… Ma siamo esseri umani e non possiamo fare altro, se abbiamo rispetto di noi stessi, che continuare a pensare.

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