"Qui rido io", di Mario Martone, con Toni Servillo e Cristiana Dell'Anna, 2021 

famiglie in scena

Da Scarpetta a Gallo, le grandi dinastie del teatro napoletano

Francesco Palmieri

Massimiliano Gallo, parlando della fiction dell’Avvocato Malinconico di cui è stato protagonista su Rai 1, ha detto che per lui suo padre Nunzio rappresentava “un mito”. Non esagerava. A Napoli i figli d’arte nascevano nei camerini e morivano sulla scena

    

Siamo una grande famiglia 
abbiam lasciato soltanto un momento 
la nostra valigia di là 
nel camerino già vecchio 
tra un lavandino ed un secchio 
tra un manifesto e lo specchio. 

 
Francesco De Gregori, “La valigia dell’attore”

       
Non c’era esagerazione nelle parole di Massimiliano Gallo, quando in una intervista televisiva di pochi giorni fa, parlando della fiction dell’Avvocato Malinconico di cui è stato protagonista su Rai 1, ha detto che per lui suo padre Nunzio rappresentava “un mito”. Non c’era l’esagerazione che, sapete, gli attori adoperano certe volte nell’ostentazione di privati sentimenti trascurando la distanza tra il set e la vita o truccando i conflitti tra la verità e la scena. Né c’era l’enfasi tipica di certi figli, che stravolgono in grottesco ritratto la memoria di mamma e papà per giustificare il conto dello psicoterapeuta o le precoci punture di botox. Per certificare l’obiettività di Massimiliano, figlio del cantante e attore che vinse Canzonissima, il Festival di Sanremo, il Festival di Napoli, che recitò con De Crescenzo e Nanni Loy e vendette alcuni milioni di dischi, chi scrive deve riesumare un episodio dalla memoria personale.

Giovane cronista che cresceva con Edoardo Bennato e Pino Daniele, consideravo consegnato a un vaporoso passato di gloria il pantheon artistico acclamato dalle generazioni precedenti, finché mi commissionarono – vai a ricordare il perché – un’intervista a Nunzio Gallo. Scegliemmo per la conversazione il Circolo della Stampa nella Villa Comunale. Parcheggiata la macchina in uno spiazzo lì vicino, il giovanissimo posteggiatore abusivo venne a chiedermi le mille lire. Mentre gliele allungavo, l’attempato cantante s’intromise e lo apostrofò con un tono fra offeso e imperioso: “Guaglio’… ma io so’ Nunzio Gallo!”. Il posteggiatore lo fissò un attimo interdetto e poi mortificato restituì la banconota: “Scusate tanto, non vi avevo riconosciuto!”. Vale questa espressione di curioso rispetto dei napoletani per l’arte più di una lapide in memoriam, di un premio alla carriera o di retoriche concioni da sala consiliare. Vale forse quanto il largo che a Nunzio Gallo, nel rione Pignasecca dove aveva abitato, è stato intitolato tre anni fa.

Un Gotha che mescola sangui e copioni, cognomi e soprannomi, primattori e comprimari per linee dirette o innesti collaterali

In quel mattino accarezzato dal sole, a pochi metri dal mare, lui non doveva pagare né avrebbero pagato Eduardo, Troisi, Maradona, Nino D’Angelo, Totò e altri “miti” riconosciuti. Massimiliano, insomma, non esagerava. Sicché, sapendo ineguagliabile per lui il padre nel canto, scelse per sé un futuro d’arte nella recitazione, dove da secoli i teatranti napoletani proiettano le proprie abilità attraverso ramificate e complesse dinastie di un Gotha mai scritto che mescola sangui e copioni, cognomi e soprannomi, primattori e comprimari per linee dirette o innesti collaterali. E’ un labirinto in cui gli studiosi rischiano di smarrirsi e i lettori di guadagnare un mal di testa, ma che merita comunque l’omaggio minimo di una istantanea.

Potrebbe essere, per esempio, lo sfocato fermo immagine del video in cui Eduardo De Filippo al Teatro Odeon di Milano, nel 1955, presenta al pubblico il suo Luca di sette anni, esordiente con l’indimenticabile particina di Peppeniello (“Vincenzo m’è padre a me!”) in Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, la medesima parte con cui l’autore di Napoli milionaria!, figlio naturale del celeberrimo commediografo, aveva debuttato. E come lui prima di lui il fratellastro legalmente riconosciuto Vincenzo Scarpetta. La circostanza è ricordata nel film Qui rido io di Mario Martone, in cui peraltro recita l’attuale Eduardo Scarpetta, ultimo erede del più intricato lignaggio teatrale partenopeo. Un garbuglio dinastico da mal di testa, ma anche la bella smentita dell’agrodolce predizione di Maria Scarpetta, prediletta figlia dell’Eduardo originario: secondo lei il teatro del padre era destinato a morire di invecchiamento “pure se mio fratello Vincenzo si sforzasse di continuare e serbare fedelmente, come un soldato che sa di andare al sacrificio, una tradizione destinata a dissolversi”. Perché Miseria e nobiltà campeggia tuttora nei cartelloni coi Peppenielli che continuano a scandire “Vincenzo m’è padre a me!” e ne viene periodicamente riproposta la versione cinematografica diretta da Mario Mattoli con Totò. 

Innumerevoli furono i ruoli di bambini scritti apposta dai capocomici per consentire un rapido esordio alle rispettive discendenze

Innumerevoli e affidati a molteplici cognomi furono i Peppenielli o i ruoli di bambino scritti apposta dai capocomici di ogni famiglia, prolifici nella produzione di figli e commedie, per consentire rapido esordio alle rispettive discendenze. Napoletani veraci, certi attori esibiscono sulla carta d’identità luoghi di nascita diversi. Peppe Barra, figlio di un fantasista e dell’attrice Concetta, fu partorito a Roma dove i genitori si trovavano in tournée. Regina Bianchi nacque a Lecce addirittura in camerino nel 1921, quando le attrici calcavano le tavole fino all’ora delle doglie e cominciavano la carriera da neonate: Regina fu portata in scena a otto giorni, poi avrebbe interpretato crescendo ruoli consoni all’età fino a essere, da grande, una Filumena Marturano fra le più memorabili. Per avere figurato a due anni nel ruolo di una bambola in una scarpettiana, a Giustina Maria Maggio, che avrebbe fatto coppia d’oro con Eduardo, restò affibbiato il nomignolo di Pupella per tutta la vita. Spiccò il suo talento anche con Visconti e Fellini rendendo onore al padre, il capocomico Mimì, e alla madre Antonietta Gravante, che discendeva da una famiglia circense.

Ormai anziane, Nunzia e Nuccia Fumo divennero note grazie ai film di Luciano De Crescenzo al grande pubblico nazionale più ignaro di teatro. Le sorelle restano un altro esempio di esordio precocissimo sul palcoscenico e furono testimoni di un pezzo di storia: il padre Eugenio, attore drammatico, fu il fondatore di una rinomata compagnia ma è soprattutto ritenuto pure il padre della sceneggiata assieme al comico Salvatore Cafiero: anno di nascita del popolare genere sarebbe stato il 1919, luogo di prima rappresentazione il Teatro Olimpia di Palermo. Nunzia aveva sei anni, Nuccia due (e a quattro avrebbe debuttato). Lavorerà, in quella compagnia Cafiero-Fumo, l’esponente di un’altra longeva genealogia teatrale, Olimpia di Maio, che spiegava così l’origine dei Peppenielli: “Spesso c’erano i ruoli per i bambini anche perché gli attori avevano figli piccoli che seguivano le compagnie e a volte erano anche costretti a dormire nelle valigie”. (Avrà pensato forse a queste storie Francesco De Gregori quando creò la sua toccante canzone).

Seguendo a ritroso il filo di Olimpia si risale al capostipite della famiglia, Crescenzo, che rifondò il Teatro San Ferdinando sulla fine dell’Ottocento; svolgendo il filo in avanti s’arriva per via matrilineare al nipote dell’attrice, Oscar di Maio, ancora attivo sul palcoscenico e nei set. Con una digressione familiare interessante, quella del fratello maggiore di Oscar, Ernesto Paolozzi (cognome del padre), che è morto l’anno scorso. Non divenne attore ma filosofo, forse l’ultimo grande studioso di Benedetto Croce però senza trascurare l’ascendenza artistica: curò nel 1994 la pubblicazione dei versi inediti dello zio Gaetano, fratello di Olimpia, con la stessa amorevolezza con cui s’accostava al Breviario di estetica.

"Smentiamo la retorica dannosa della pura istintualità: non c'era disciplina più dura di quella richiesta nella rivista o nell'avanspettacolo"

“Per chi oggi nasce in una famiglia d’arte, la via del teatro è una possibilità però non più esclusiva, mentre per le generazioni precedenti rappresentava un percorso ineludibile, che cominciava come un gioco soave ma non lasciava scampo”, spiega Francesco Cotticelli, docente di Discipline dello spettacolo all’Università Federico II e curatore della recente mostra “Napoli in scena”, che ha esibito tra l’altro gli archivi di Raffaele Viviani, Giuseppe Patroni Griffi e Nino Taranto. “In quelle dinastie la trasmissione dei saperi non avveniva solo per via verticale ma in modo trasversale, perché intorno a un ceppo si radunava un gruppo collaterale e compatto di artisti dando vita a quella che soltanto adesso, molto tempo dopo che attecchì in teatro, definiamo ‘famiglia allargata’. Con la conquista quotidiana delle esperienze”, nota Cotticelli, “gli attori acquisivano una capacità di discernimento teorico che non passava per l’accademia ma si consolidava nella stessa formazione. Smentiamo la retorica dannosa della pura istintualità con cui certi talenti germogliati da quelle famiglie sono stati talvolta liquidati: non c’era disciplina più dura di quella richiesta nella rivista o nell’avanspettacolo”.

Il fenomeno delle dinastie è peculiare del teatro, mentre nella tradizione musicale napoletana la trasmissione è stata limitata quasi sempre al rapporto padre-figlio: “La longevità delle stirpi era determinata dal connubio dell’aspetto artistico o artigianale con quello imprenditoriale. Così fu nei teatri. Nella musica avvenne in via eccezionale, come per la famiglia Cottrau, perché si dedicò all’editoria”, osserva Pasquale Scialò, docente al conservatorio di Salerno, compositore e autore di una Storia della canzone napoletana in due volumi. “C’era anche un aspetto pratico: gli artisti di prosa, popolare o colta, passavano gran parte della vita nel teatro e non potevano permettersi le balie: i figli se li dovevano portare appresso. Chi lavorava nella sceneggiata cominciava a provare alle 10 del mattino, aveva il primo spettacolo alle 4 e terminava verso le due di notte. Senza contare che la formazione di una compagnia teatrale può sussistere su base familiare allargata, mentre quella di un’orchestra ha bisogno di un gruppo più ampio ed eterogeneo”.

La sorte di Molière: è presumibile che gliel'abbia un po' invidiata chi, vecchio attore di dismesse dinastie, si sia spento per naturale consunzione

Spesso però da un’arte si trasmigra all’altra come nel caso di Massimiliano Gallo. O di Toni D’Angelo, figlio di Nino, che ha scelto la strada della regia cinematografica. O, in passato, del musicista Roberto Murolo, figlio del poeta Ernesto il quale era a sua volta figlio naturale di Eduardo Scarpetta, quindi fratellastro dei tre De Filippo e dei tre legittimi Domenico, Vincenzo e Maria Scarpetta. Domenico però non era frutto verace di Eduardo bensì della relazione di sua moglie Rosa col re Vittorio Emanuele II (altro indefesso faticatore delle alcove). Sangue teatrale più sangue reale, com’era noto a tutti i frequentatori del San Carlino, il palcoscenico dove Scarpetta aveva scalzato il maestro Antonio Petito, uccidendo con il nuovo personaggio di Felice Sciosciammocca la vecchia maschera di Pulcinella. Ma s’illudeva: nel peggio e nel meglio, di Pulcinella muore solo il temporaneo interprete. Come accadde a Petito sulla scena. Perché la parabola di un teatrante cominciava con le Pupatelle e i Peppenielli e poteva concludersi con la morte d’artista: Antonio Petito, anche lui figlio d’arte, prese la maschera dal padre Salvatore e la indossò fino alla sera del 26 marzo 1876, quando accusò il malore fatale dinanzi al pubblico. Un altro Pulcinella, Salvatore Mancinelli, se ne sarebbe andato mentre mangiava i maccheroni sul palco, ma la lista dei deceduti in servizio non si esaurisce con loro e anche più oscuri interpreti napoletani condivisero, se non la fortuna, la sorte del grande Molière. E’ presumibile che gliel’abbia un po’ invidiata chi, vecchio attore di dismesse dinastie, si sia spento per naturale consunzione senza il coraggio di togliersi la vita contro il decadimento, come fece il matador Juan Belmonte quasi invidiando Joselito per la sua fine nel fulgore dell’arena.

E’ questo il caso, descritto da un commosso Salvatore Di Giacomo, di don Ferdinando ultimo Casacciello, superstite della dinastia d’opera buffa inaugurata dal quadrisavolo Giuseppe Casaccia cantante ai tempi di Paisiello. Ferdinando si consumò su una poltrona dove “borbottava qualche cosa che io non potevo comprendere; si lamentava, mi pare, dell’oblio de’ suoi compagni, dell’indifferenza del pubblico, che lasciava morire, senza aiutarlo, un celebre artista che per tanto tempo e tanto lo aveva fatto ridere. Io non sapevo che dire”, avrebbe raccontato Di Giacomo. Era il 1894 e don Ferdinando aveva trascorso quarantun anni “sulle tavole”, dove intanto Peppenielli presenti e futuri erano ansiosi di salire.