Tutto su Roth. Pettegolezzi e altre storie gustose nella biografia appena pubblicata da Einaudi
Il mestiere, le donne, le critiche. Vita di un autore novecentesco che non scriveva solo i fatti propri
Cosa attende il coraggioso lettore nelle 950 pagine della biografia di Philip Roth (Einaudi)? Si intende: al netto dei pettegolezzi già noti e dello scandalo che trascinò un libro nella spazzatura. L’editore Norton mandò al macero le copie già stampate, dopo aver commissionato il lavoro e pagato anticipi al biografo David Bailey, scivolato su un’antica molestia improvvisamente tornata alla memoria. Succede, per carità. Dimentichi il fattaccio fino a che uno diventa celebre.
Altri pettegolezzi e altre storie gustose. E la vita di uno scrittore totalmente dedito al suo mestiere, a dispetto del mal di schiena che sempre lo perseguiterà, postumi di un incidente capitato nel 1955, ultimo giorno di addestramento militare. Unica distrazione, le donne. E qui bisogna dire che il destino (il suo psicoanalista Hans Kleinschmidt avrebbe piuttosto incolpato l’inconscio) ha fatto incontrare a Philip Roth qualche temibile esemplare.
Prendiamo Maggie, la prima moglie. Si fece sposare fingendo di essere incinta, e fin qui la colpa è grave ma non gravissima – uno può sempre scegliere la fuga. L’intraprendente Maggie mostrò un test a sostegno della sua affermazione. Rubato? Falsificato? Peggio: andò a Central Park, vide una donna incinta, simulò di dovere fare una ricerca e si fece dare il prezioso materiale da spedire al laboratorio. Ottenuto quel che voleva, sarebbe stata una saggia idea tenere il segreto per il resto della vita. Invece confessò. Philip Roth chiese il divorzio, che gli costò parecchio (e in seguito fece molti faticosi tentativi di inserire la vicenda in uno dei suoi romanzi: fattaccio e confessione erano oltre ogni immaginazione). Prendiamo Claire Bloom, la seconda moglie. Attrice di cinema e teatro, rubò il titolo “Casa di bambola” a Ibsen per commuovere i lettori con il memoir “Leaving the Doll’s House”. Un’interminabile lamentela e una violenta resa dei conti contro Philip Roth che rispose punto per punto ma non rese pubblico il testo, affidandolo poi al suo biografo. Altri episodi che diventeranno “materiale da romanzo”. Dopo un faticoso lavoro di scrittura e riscrittura: “Scrivo una frase e la giro, ne scrivo un’altra e la giro, poi le giro tutte e due, poi vado a pranzo torno e le cancello”.
Così lavorava Philip Roth, fino a rovinarsi la schiena. Poi chiamava gli amici più intelligenti e cattivi, dava il manoscritto in lettura, e ascoltava senza batter ciglio le critiche più atroci. Eppure circola la leggenda che abbia scritto solo i fatti propri, messa in giro da chi pensa che l’autobiografia sia il sommo genere letterario, vero e senza artifici – qualità da caprino o ricottina, mica da romanzo. Il grandissimo Vladimir Nabokov diceva che “semplice e sincero” erano le parole che in letteratura temeva di più. Bailey ha messo insieme una quantità enorme di materiale, e tiene benissimo le redini del racconto. Viene fuori la vita di uno scrittore novecentesco: i contratti, gli anticipi, i critici che possono decretare il successo o il fallimento (e la cifra da spuntare per il tascabile). Philip Roth era uno scrittore famoso nel 1969, quando uscì “Il lamento di Portnoy”. Nella sua carriera non andò sempre tutto così liscio, almeno fino al “Teatro di Sabbath”, 1995: il marionettista con le mani rovinate dall’artrite, tormentato dal desiderio e per un’amante fantasiosa e devota.