"Saper tacere"
Manualetto settecentesco per non annegare nelle vanvere del presente
L’abate francese Dinouart contro la smania di parlare e di scrivere. Ne pubblica i due scritti principali, meritoriamente, Elliot edizioni
"Il primo gradino della saggezza è saper tacere. Il secondo è saper parlare poco. Il terzo è saper parlare molto senza parlare troppo”.
Tre righe e già si stravede: mozione Dinouart! O meglio, Joseph Antoine Tousaint Dinouart, abate francese del Settecento. Ne pubblica i due scritti principali, meritoriamente, Elliot edizioni (pagg. 72, ebook 2,99 euro). Già i titoli – “L’arte di tacere, seguita da L’arte di scriver poco” – e vabbè, ci si emoziona. Poi apri l’augusto librino ed ecco il secondo paragrafo: “… la smania di parlare e di scrivere è diventata una malattia, un’epidemia che colpisce moltissimi tra di noi. Gli ignoranti, così come i filosofi di oggi, sono caduti in una specie di delirio. Quale altro nome dare a queste opere che sommergono, e che bandiscono ogni verità e ragionamento (...)?”. Autentica vampata d’amore proseguendo poco oltre, incontrando una venatura di cauto pessimismo, quella savia consapevolezza delle gravi coserelle umane propria di chi sa che il contributo personale è sempre meno decisivo di quanto ci si illuda. “L’opera che presento guarirà queste menti malate?” si chiede l’abate. “Probabilmente no, perché esse ostentano un disprezzo superbo…”. E quindi a capofitto, giù, ad aggredire la materia: “Dal momento che ci sono due modi di esprimersi, uno attraverso le parole e l’altro attraverso gli scritti, ci sono anche due modi per tacere: il primo trattenendo la lingua, l’altro trattenendo la penna. Seguendo il consiglio del saggio: c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”.
Insomma, due pagine e ce n’è a mucchi e a carrettate per farne il testo di riferimento di chi rifiuti di annegare tra i flutti dell’idiozia vaniloquente di certi guitti, bari e menestrelli senz’arte ma con troppa parte che imperversano in ogni dove, e per chi intenda praticarla mai e poi mai. Un testo pubblicato in Francia nel 1771 che parla del silenzio, certamente, ma soprattutto – ed è ciò che lo rende più profondo – del “se taire”, del voler tacere e del sapere come fare, dell’obiezione di coscienza che consiste nel rivendicarne una, della diserzione rispetto a certi fragorosi arruolamenti, del rifiuto a scrivere sempre e comunque la propria opinione su quella sterminata parete di cesso cui Tommaso Labranca si riferiva parlando dei social. Un testo che parla di noi. E della parola. E del parlare. E dello straparlare.
Quanto al tacere, il punto non è tanto non emettere suono, quello lo fanno anche gli animali (e del resto ci si può buttare a corpo morto nei monologhi interiori più strambi, pericoloso trampolino per esternazioni seguenti). Il punto è semmai “saper dominare la lingua, cogliere i momenti opportuni per trattenerla o per offrirle una libertà moderata”. Certo, non tutti i silenzi sono fertili, ci ricorda l’abate. Ma tutte le vanvere sono inutili, e nessuna vanvera potrà mai essere intelligente.
Bordate anche al troppo scrivere (“ci sono scrittori che scrivono tanto per scrivere, esattamente come ci sono uomini che parlano tanto per parlare”), agli scrittori che infuriano con le loro pagine inessenziali (“compilazioni insulse, racconti infami”), e grande lamentazione per i torchi che gemono per star dietro alle pubblicazioni – eppure era un’epoca che oggi ci appare dorata, in cui autofiction significava Les rêveries du promeneur solitaire di Rousseau, per quanto poco potessero piacere all’abate. Fendenti anche agli scrittori che discettano di sistemi politici, e ovviamente ne vengono in mente molti anche oggi, che instancabilmente tuittano soluzioni per l’umanità del futuro, per l’economia planetaria, per il congresso del Pd. “Un filosofo che non è altro che un filosofo” – staffila l’abate – “uno, cioè, la cui vita non ha alcun rapporto col mantenimento dello Stato, e che si metta sullo stesso piano di chi governa e amministra, è soltanto uno scrittore che ha dei bei sogni e che ce li racconta con piacere”.
Impagabile, infine, questo ritratto preciso e sartoriale di Matteo Salvini: “Il silenzio politico è proprio di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa. Un uomo che sa che è meno rischioso tacere che parlare”.