Luci nella tragedia
Fare memoria del genocidio armeno affinché non si ripeta. Due libri di Antonia Arslan
Con il romanzo "Il destino di Aghavni" (Edizioni Ares) la scrittrice torna a indagare sul destino tragico della sua famiglia. Nella figura simbolica del profugo Selim il fabbro, il collegamento con "Il libro di Mush", apparso una prima volta nel 2012 e ripubblicato quest’anno da Bur-Rizzoli
A diciotto anni dall’uscita del suo capolavoro, La masseria delle allodole, Antonia Arslan torna a indagare sul destino tragico della sua famiglia, massacrata, deportata e dispersa nel corso del genocidio armeno. Che fine ha fatto Aghavnì? Solo dall’incontro con un lontano cugino, e a partire dal ritrovamento di una vecchia fotografia, riemerge dal passato una verità dimenticata, ora trasposta in un breve romanzo (Il destino di Aghavnì, Edizioni Ares, 120 pagine) dalla penna delicata e sensibile della scrittrice contemporanea italiana più tradotta nel mondo.
Nella piccola città dell’Anatolia centrale, in “giorni calamitosi”, una famigliola – la donna, suo marito Alfred, il vivace Garò e la piccola Zabel – scompare nel nulla. I quattro sono usciti di casa a piedi, diretti all’abitazione di zia Annette, dove però non sono mai arrivati. Nessuna traccia, nessun testimone. Le due importanti famiglie, angosciate, si riuniscono in consiglio per valutare il da farsi, ma dall’incontro emerge solo la necessità di nuove informazioni. Non si sa a chi rivolgersi: delle autorità non c’è da fidarsi, e anche ungendo qualche funzionario, non si ottiene nulla; i turchi in strada sono omertosi, si fingono partecipi, ma sanno cosa bolle in pentola e già adocchiano la loro parte di bottino. Di lì a poco, tutti gli armeni saranno spazzati via e le loro case saccheggiate.
In realtà, un testimone rivela che Aghavnì e i suoi sono stati rapiti dai curdi: una sorte orribile, che però vale a sottrarli allo sterminio. La vita nella tribù curda è dura, umiliante, oppressiva, chi tenta di fuggire paga con la vita; ma anche nelle circostanze più avverse, la forza insopprimibile e dirompente del messaggio cristiano riuscirà a riemergere, e a inoculare nei cuori più duri un germe di speranza e di pace.
La conclusione, così fortemente intrisa di spirito religioso, è possibile anche grazie alla figura simbolica di Selim il fabbro, il cui vero nome Torkom, un profugo armeno originario della valle di Mush. Questo personaggio rappresenta l’elemento di collegamento con un altro romanzo breve della Arslan, Il libro di Mush (150 pagine) apparso una prima volta nel 2012 e ripubblicato quest’anno da Bur-Rizzoli, con una nuova prefazione dell’autrice.
Quest’altra opera racconta, sempre in forma romanzata, la vicenda del salvataggio di uno dei più antichi e preziosi manoscritti armeni, l’Omiliario di Mush (il Libro dei Sermoni) ricco di miniature finissime e disegni pregiati. Si tratta di una raccolta di omelie composta fra il 1200 e il 1202, su commissione di un devoto mercante. La preziosa reliquia fu effettivamente custodita dai monaci di Surp Arakelots, nella valle di Mush, per sette secoli.
Nel romanzo, uno sparuto gruppo di sopravvissuti armeni – due giovani donne, un bambino e una coppia di greci, su cui veglia un Angelo muto – ritrova il sacro volume fra le macerie del monastero distrutto, e con una lunga marcia verso il Caucaso, fra infinite vicissitudini, riesce a portarsi da Mush a Erzurum, fino a Etchmiadzin, nel territorio sotto il controllo russo, dove le autorità religiose armene metteranno in salvo il prezioso carico. Oggi l’Omiliario di Mush, il più grande manoscritto armeno esistente, è esposto nella grande biblioteca di Yerevan, testimone della cancellazione di un popolo millenario dalle sue terre d’origine.
Nelle settimane scorse, il presidente/dittatore turco Recep Tayyip Erdogan, dimentico della favola del lupo e dell’agnello, ha accusato gli armeni di “genocidio” – proprio così – nei confronti degli azeri, per quanto accaduto nel Nagorno Karabakh. Grandi nuvole nere tornano ad addensarsi nei cieli sopra l’Armenia.