Lo storico narciso. Come cambia lo studio del passato
Sempre più spesso il racconto degli studiosi di storia comincia col dire: "Io". Uno scetticismo per una verità unica e oggettiva che trasforma la disciplina in una specie di letteratura. Ma così ci si condanna a un eterno presente. Un confronto fra critici ed entusiasti
L’età del narcisismo ha contaminato anche l’universo della scrittura. I romanzi sono sempre più spesso storie di vita narrate in scala 1:1. Nei giornali si affollano rubriche e articoli fondati sul racconto di sé, sulla narrazione in chiave ironica, sarcastica, a volte vittimistica, spesso intimistica, di vicende personali. Anche la politica, nel caso specifico la scrittura dei politici, parla la lingua dei selfie. Mai come in questi ultimi dieci anni il mercato editoriale è stato invaso da autobiografie di protagonisti della politica intenti a raccontare i dettagli intimi della propria storia familiare e le emozioni che hanno scandito le singole tappe della loro vita, molto più che non le loro proposte politiche. Un pubblico ormai assuefatto al voyeurismo digitale ne rimane affascinato, forse intrappolato, sicuramente intrattenuto. Romanzieri, giornalisti, politici, ciascuno di loro, come del resto ciascuno di noi, si sente legittimato, in nome di una fantomatica connessione empatica con il suo pubblico, a ritenere il proprio banale vissuto quotidiano come qualcosa di speciale da raccontare all’universo mondo. E la storia? Come reagisce la pratica storiografica al narcisismo del nostro tempo?
Come è cambiato negli ultimi anni il modo di accostarsi allo studio del passato da parte dei professionisti della storia? C’era un tempo in cui gli storici scrivevano in terza persona e l’imperativo della disciplina era quello di ricostruire il passato attraverso una narrazione impersonale. Solo così, recitava quel paradigma ereditato dalle scienze naturali, lo storico poteva mantenere la necessaria distanza rispetto alle vicende che studiava. Solo in questo modo poteva ricostruire ciò che era realmente accaduto, raccontare il passato in modo oggettivo.
L’imperativo di una ricostruzione del passato attraverso la narrazione impersonale era un paradigma ereditato dalle scienze naturali
Tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ci fu chi iniziò a svelare la natura illusoria di quella presunta oggettività. Nello stesso decennio in cui Pierre Nora e la sua ego-histoire impartivano lezioni sul carattere ingenuo del positivismo storiografico, Carlo Ginzburg formulò l’invito a esibire il paradigma indiziario all’origine di ogni singola ricerca storica. L’indagine dello storico, sottolineò Ginzburg, non doveva essere più solo la premessa del racconto, il lavoro sotterraneo e nascosto che consentiva di accedere alle fonti e sfruttarle: essa stessa poteva, e in un certo senso doveva, diventare parte della narrazione. Già alla metà degli anni Settanta lo storico torinese aveva dato alle stampe, insieme ad Adriano Prosperi, un seminario, come recitava il sottotitolo del libro, sul Beneficio di Cristo, il cinquecentesco bestseller della Riforma italiana. Fu uno dei primi esperimenti di narrativizzazione dell’indagine storica. In un panorama storiografico dominato dal racconto in terza persona l’onnipresente “noi” dei due storici fu dirompente. Una lezione metodologica per molti aspetti innovativa che raccontava con prosa agile e scorrevole i “giochi di pazienza”, così il titolo del volume einaudiano, intrapresi dai due autori insieme ai loro studenti bolognesi per ricostruire la natura sfuggente di quel testo spirituale uscito anonimo a Venezia nel 1543. Le ipotesi di partenza e quelle formulate in corso d’opera, le piste seguite, gli errori commessi, i ripensamenti, in altre parole tutte le tappe e i passaggi di una ricerca difficile e non sempre fruttuosa venivano condivise con il lettore, comprese le delusioni e gli entusiasmi che ne avevano accompagnato lo svolgimento. Negli anni successivi, Ginzburg avrebbe fatto di quello sguardo esplicitamente soggettivo una costante della sua indagine storica.
Negli ultimi due decenni però i confini di quella sfida metodologica sono stati portati ancora più avanti, ben oltre i limiti che Ginzburg e Nora, con modalità molto differenti tra loro, avevano immaginato. Il paradigma dell’oggettività positivistica è stato oggi letteralmente ribaltato, fino a sostenere che solo la soggettività più smascherata è garanzia di oggettività, che in altre parole è proprio il pieno riconoscimento della soggettività dello storico a rendere la conoscenza maggiormente oggettiva. Il più esplicito teorico di questo nuovo modo di fare e scrivere storia è Ivan Jablonka, quarantanovenne storico francese di origini polacche, autore di un libro di successo sul caso di Laëtitia Perrais, giovane diciottenne rapita e uccisa nei dintorni di Nantes nel 2011 (Laëtitia o la fine degli uomini, 2018) e di una Storia dei nonni che non ho avuto (2013), nonché di un manifesto ideologico intitolato L’histoire est une littérature contemporaine (2014). La sfida di Jablonka chiama in causa il rapporto tra storia e letteratura ma anche quello tra storia e cronaca del tempo presente. Se lo storico si mette a ricostruire, dunque a raccontare, gli eventi dell’oggi, che cosa distingue il suo lavoro da quelli di un cronista giudiziario o di un romanziere? Cosa vuol dire fare storia del tempo presente? Ce n’è abbastanza per mettere in discussione lo statuto stesso della storia.
La sfida di Ivan Jablonka: se lo storico si mette a ricostruire gli eventi dell’oggi, che cosa lo distingue da un cronista giudiziario o un romanziere?
Enzo Traverso, professore di Storia alla Cornell University, già autore di numerosi studi su fascismi e rivoluzioni in età contemporanea, ha provato a ricostruire questa recente svolta storiografica nel suo La tirannide dell’Io. Scrivere il passato in prima persona (Roma-Bari, Laterza, 2022). Pur attraverso il filtro della sincera ammirazione che traspare dalle sue pagine, Traverso non riesce a nascondere la diffidenza nei confronti degli storici che espongono la propria interiorità e pongono il proprio io al centro del palcoscenico rischiando, sottolinea, di oscurare il passato con la loro soggettività. Il Narciso storico, molto più giovane ma non meno ambizioso e creativo del Narciso romanziere, scrive Traverso, si alimenta del desiderio di comprendere il passato, non è animato solo da autocontemplazione o autoammirazione. La sua ricerca d’identità giunge a compimento solo al termine di un lungo lavoro d’investigazione del passato raccontato in prima persona che gli consente, dopo aver interrogato la vita degli altri, di capire infine chi egli sia e da dove venga. Eppure il sospetto, aggiunge Traverso, è che in opere come quelle di Jablonka il racconto finisca per prevalere sull’indagine, dando origine a fictions di metodo la cui finalità sarebbe puramente letteraria.
Anche Sergio Luzzatto, uno dei più brillanti storici italiani, che pure di questa stagione è almeno in parte co-protagonista, condivide le perplessità di Traverso sui rischi insiti nel fare storia del tempo presente. Nel suo Partigia (2013), indagine sulle tracce di un episodio controverso della biografia di Primo Levi destinato a gettare nuova luce sulla storia della Resistenza e della lotta partigiana, Luzzatto arricchiva il suo racconto storico con descrizioni dei paesaggi montanari delle escursioni compiute sulle tracce dei protagonisti, con la narrazione delle emozioni suscitate dall’incontro con vecchi partigiani o da rilevanti ritrovamenti archivistici, infine anche con intimi ricordi personali, muovendosi almeno in parte sulla scia di Jablonka. Nel suo più recente Max Fox (2018), invece, alle prese con una nuova spericolata sfida storiografica, quella di ricostruire la figura di Massimo De Caro, bibliomane, falsario, protagonista, ormai un decennio fa, dello scandaloso saccheggio della ricchissima biblioteca dei Girolamini di Napoli, Luzzatto sente l’esigenza di chiarire che l’“histoire du present” alla Jablonka è una “disciplina proibitiva”: “La storia del presente non è nulla più che un ossimoro”. Impossibile infatti rispettare quelle regole metodologiche che il lavoro dello storico impone, quella rigorosa verifica delle fonti che si accompagna a ogni ricerca storica degna di questo nome. Egli stesso, ammette a malincuore, non ha scritto un libro di storia. Anche se si tratta di un libro piacevolissimo da leggere, ricco del senso della sfida metodologica che affronta, quello tracciato in Max Fox non è un sentiero che lo storico può percorrere senza rinunciare agli strumenti propri del suo mestiere.
Sergio Luzzatto, uno dei più brillanti studiosi italiani: “La storia del presente è una disciplina proibitiva, nulla più che un ossimoro”
Lo statuto della disciplina storica non viene del resto insidiato solo dall’interno, dalla sfida soggettivistica e dalla storia del tempo presente praticata da Jablonka e compagni, ma anche dall’esterno, da discipline attigue alla storia, prima tra tutte la letteratura. Come sottolinea Traverso, la pratica soggettivistica della storia è speculare a un ritorno sempre più prepotente del romanzo storico. Basti pensare al grande successo editoriale di Antonio Scurati, autore di una trilogia mussoliniana (M) nella quale “ogni singolo accadimento, personaggio dialogo discorso” narrato è, a detta dell’autore, “storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte”. Scurati perora la causa di una nuova alleanza tra storia e letteratura e afferma perentoriamente che “la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali”, attenuando appena la sua dichiarazione laddove specifica subito dopo che si tratta di un’“invenzione non arbitraria”.
A mio parere, la storia non è un’“invenzione non arbitraria”, è semmai un’interpretazione, certamente soggettiva, degli eventi del passato. Ma la sfida delle frontiere interdisciplinari rimane sempre stimolante. Una delle collane più innovative dell’editore Einaudi è intitolata per l’appunto “Frontiere” (è diretta da Francesco Guglieri). In quella collana sono usciti, non a caso, Läetitia di Jablonka e Max Fox di Luzzatto, come anche Veronica e il diavolo della storica Fernanda Alfieri, uno sforzo ambizioso e ben riuscito, anche se non facilmente replicabile, di raccontare in forma romanzata, ma scrupolosamente documentata, la storia di una donna nella Roma dell’Ottocento attraverso i diari lasciati da due gesuiti, protagonisti di un tentativo di esorcismo ai suoi danni. Una storia in cui l’io dell’autrice si intreccia su più piani con l’io dei due gesuiti e con il corpo conteso di Veronica.
E’ vero, come scrive Traverso, che la nuova storia soggettivista suggella il passaggio dalle identità collettive a quelle individuali, totalmente imperniata come è su di “una temporalità esistenziale”. Gli storici di oggi si muovono dal generale al particolare, producendo storie e domande che “si esauriscono nel racconto di singole vite chiuse in sé”, rischiando così di rinunciare a una qualsiasi visione d’insieme. L’allarme di Traverso è in larga parte condivisibile: “La storia si è sfaldata, la sua unità è indecifrabile, la sua dialettica è svanita, c’è un ritorno delle histoires, mosaico di un passato composto di mille frammenti, una moltitudine di ruscelli, di narrazioni autonome”, e questa “dilatazione dei dettagli ha reso incompatibile la sequenza”.
La rinuncia a offrire chiavi interpretative di lungo periodo è una conseguenza del riflusso politico che caratterizza il presentismo di oggi
La rinuncia a trattare grandi temi, a misurarsi su problemi storici di lunga durata, a offrire chiavi interpretative di lungo periodo è a mio parere una delle conseguenze del riflusso politico che caratterizza la cultura presentista di oggi e, allo stesso tempo, una delle ragioni principali della perdita di rilevanza pubblica della storia. Gli storici devono tornare a pensare in grande, ricominciare a discutere e far discutere intorno ai temi caldi dell’agenda politica, culturale ed economica del paese, studiati e presentati da una prospettiva storica di lungo periodo. Allo stesso tempo, la capacità di farsi scuotere dalle sfide del presente, di mettersi in discussione per testare fino in fondo i propri limiti, di lasciarsi permeare dal clima e perché no, dalle mode del presente, per riformulare i confini del proprio mestiere senza tradire la consegna del rigore dell’indagine storiografia, è un segno di vitalità della disciplina. Sperimentare fa sempre bene, anche solo per dire: questa non è storia, la storia non si fa così. Coltivare una pluralità di approcci e di sfide metodologiche insomma non può che rafforzare la centralità di un mestiere che il presentismo vorrebbe invece accompagnare a una dolce eutanasia. A patto però di tenere a bada l’ego degli storici.