Semplice è bello. Perché la cultura dell'essenzialità ha fatto grande il design italiano
Il mito della semplicità nasce come imperativo etico prima che scelta estetica. Fu la mentalità protestante a imporre l’understatement come valore. Che cosa resta ancora da fare. Grand Tour fra oggetti, forme, personaggi
La perfezione si ottiene non quando non c’è nient’altro da aggiungere, bensì quando non c’è più nulla da togliere
Antoine de Saint-Exupéry
Lo hanno ribattezzato ministero delle Imprese e del Made in Italy, ma forse sarebbe stato più corretto chiamarlo delle Imprese e del Designed in Italy. Nell’opinione corrente, infatti, design è sinonimo di creatività, di ricercatezza, di buon gusto. Inoltre, è “quel certo non so che” che distingue certi prodotti industriali. In Italia il primo imprenditore che lo ha applicato alla sua produzione è stato Adriano Olivetti, che negli anni Cinquanta del secolo scorso affidò a Marcello Nizzoli il disegno della Lettera 22. Come sistema culturale, il design è figlio dell’immaginario costruito dall’estetica modernista, incentrata su una radicale riduzione all’essenziale delle forme. E’ l’ideale totalizzante che tiene insieme lo show-room di Armani, gli appartamenti dai muri bianchi alla Le Corbusier, il minimalismo zen di Muji, fino alle composizioni di nouvelle cuisine. Si tratta di “uno dei miti più importanti del Novecento: quello della semplicità” (Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi, 2019).
Il mito della semplicità ha origini antiche e nasce, prima che come scelta estetica, come imperativo etico. A inizio Cinquecento, fu la mentalità protestante a imporre l’understatement come valore. Già nei ritratti di Hans Holbein (1497-1543) si vede la borghesia del nord vestita di nero, in aperto contrasto con i colori sgargianti esibiti dai principi delle corti cattoliche: un abbigliamento percepito come spreco, mancanza di senso della misura. Vestirsi di nero era considerato, al contrario, un segno di rigore morale e di compostezza interiore, di quella sobrietà di costumi che doveva caratterizzare chi era diventato ricco grazie al lavoro e non ai privilegi della nascita. Proprio a questo stile di vita si ispirerà una peculiare esperienza di design, legata a un ramo del calvinismo puritano dei quaccheri sorto nel primo Settecento in Inghilterra e diffusosi rapidamente negli Stati Uniti: gli Shakers.
Sotto la spinta del loro attivismo religioso, i “Credenti nella seconda apparizione di Cristo” si dedicano all’invenzione di oggetti di arredamento spogli di qualsiasi ornamento decorativo, che avranno un’influenza determinante su tutto il design successivo. Le loro sedie, strutture ridotte all’osso, sono il prototipo della nostra sedia di uso comune, e anticipano di due secoli la concezione del minimalismo casalingo dell’Ikea. Il termine “minimalismo” viene coniato nel 1965 dal filosofo dell’arte inglese Richard Wollheim in un articolo pubblicato sulla rivista Arts Magazine. I suoi princìpi, tuttavia, erano stati codificati e sperimentati tra le due guerre mondiali dal cosiddetto Movimento Moderno. “Less is more” (il meno è più, oppure il meno è meglio) era il motto di Ludwig Mies van der Rohe (1886-1969), uno dei suoi esponenti di punta insieme a Le Corbusier e Walter Gropius. Figlio di un maestro muratore di Aquisgrana, fin da ragazzo comincia a lavorare nei cantieri. Da questa esperienza elabora la concezione di un’architettura ridotta all’osso, “skin and bone”. Ovvero: non aggiungere, non coprire, non adornare. L’essenziale è ciò che serve, basta un’assoluta semplicità. Il vetro è il materiale perfetto per concretizzare il suo credo: sostituisce le pareti, crea uno scambio tra interno ed esterno, massimizza la luce. Progetta quindi grattacieli con piante cristalliformi, come il Seagram Building a New York (realizzato insieme a Philip Johnson). Il suo linguaggio culmina nella Neue Nationalgalerie, il Museo di arte contemporanea di Berlino: un grande padiglione completamente vetrato sostenuto da otto pilastri in acciaio. Ambienti luminosi, ampi, ordinati, in cui risaltano le linee e le geometrie. Estrema sintesi e perfezione tecnica. Il minimal ora è sinonimo di eleganza e stile senza tempo. Entrando nelle case e negli uffici è diventato il simbolo per eccellenza dell’architettura contemporanea. Eliminati gli elementi ridondanti, gli ambienti sono finalmente a tutta luce. Ma già 1929 Mies aveva realizzato una delle sue opere più celebri: il Padiglione di Barcellona, un edificio esposto dalla Germania all’Expo della città catalana. Resta un gioiello dell’architettura moderna per le sue forme semplici e l’uso spettacolare di materiale stravagante, come marmo, onice rossa e travertino.
“Less is more” è una formula che conoscono bene non solo i designer e gli architetti, ma anche gli stilisti. Se c’è una stilista che l’ha interpretata con superba fantasia, questa è stata Coco Chanel (1883-1971). Una donna sempre controcorrente, sempre ribelle agli stereotipi femminili. Il suo è stato un sovvertimento radicale dei canoni sartoriali dell’epoca: abiti stretti e ingessati, impolverati e scomodi. Al corsetto e alla crinolina contrappone abiti morbidi e sobri, senza costrizioni e stringhe. Una moda che rispecchiava i cambiamenti della società: eleganza contro imposizione, disinvoltura contro restrizione. L’antitesi dei colori opposti, l’introduzione della comodità del jersey e della tracolla: in lei c’era l’avanguardia di uno stile rivoluzionario che ritrovava nella praticità la stessa ragion d’essere di un mestiere altamente qualificato. Più che una sua musa, un’audace imprenditrice in tailleur bicolore, che ha fatto della semplicità un simbolo dei tempi moderni. La stessa invenzione della tracolla (1955) sottintendeva un messaggio di libertà, di una libertà dei costumi da riconquistare, che diventerà un inno degli anni Sessanta.
Giulio Carlo Argan sulla vexata quaestio del rapporto tra arte e design: “Con la rivoluzione industriale l’ordine di valori si è invertito”
Proprio in quel decennio si riapre la vexata quaestio del rapporto tra arte e design. In uno scritto di Carlo Giulio Argan del 1964, vengono chiaramente spiegati i termini della discussione: “All’arte pura è stato generalmente riconosciuto un grado di valore e di dignità più elevato che all’arte applicata […]. Questo giudizio dipendeva dalla valutazione della tecnica come mera manualità, priva di carattere e forza ideale. Nel secolo scorso, cioè proprio quando avveniva la rivoluzione industriale, quell’ordine di valori si è invertito […]. I ponti, i viadotti, i grandi magazzini, infine le prime costruzioni in ferro e in cemento sono il precedente diretto del disegno industriale; la loro ‘bellezza’ dipende dalla loro perfezione tecnica e dalla loro aderenza a una funzione pratica; e poiché la tecnica e la pratica implicano un fare, l’idea del bello si connette al fare e non più al contemplare” (Il disegno industriale, in Progetto e destino, il Saggiatore). Questa citazione registra il mutato atteggiamento nei confronti del design, ma non chiude la polemica sul suo rapporto con l’arte, peraltro un problema non ancora risolto.
Si tratta di una polemica che vanta illustri antenati. Fu infatti Tiziano il primo a rivendicare per il proprio lavoro lo statuto di opera d’ingegno. Gli altri pittori vendevano i loro quadri; cittadino della Serenissima, nel 1567, ottenne dal senato veneziano i diritti sulla riproduzione dei suoi dipinti. Per la prima volta, in modo ufficiale, il valore non veniva calcolato sull’esecuzione materiale, ma sull’invenzione, sull’idea compositiva. Però solo nel 1735 un altro pittore, il londinese William Hogarth, riuscì a ottenere il primo vero atto legale di riconoscimento della proprietà intellettuale, cioè i diritti d’autore sulle immagini. La vecchia questione del rapporto tra arte e design non può essere dunque ignorata, soprattutto perché sono sempre più numerosi i giovani che si avvicinano al design con intenzioni artistiche. Del resto, dopo l’orinatoio di Marcel Duchamp (1917), è difficile circoscrivere con precisione il fatto artistico. Quando nel linguaggio di tutti i giorni diciamo “è arte”, più che a una definizione spesso ricorriamo a una metafora: diciamo “è arte” ma intendiamo “è come un’opera d’arte”, delegando a essa il ruolo del disinteresse e della contemplazione. Ma forse un’arte siffatta – sganciata dalle esigenze quotidiane della società – non c’è mai stata, tanto che nel contratto di Botticelli si legge che la “Primavera” (1480 circa) aveva una funzione di arredamento, ossia che il dipinto sarebbe stato appeso sopra una cassapanca nella villa del suo amico e protettore Lorenzo di Pier Francesco de’ Medici. Insomma, non è vero che il design è utile mentre l’arte è il tempio dell’espressione spassionata.
Le icone dell’“Italian look” : la lampada Arco dei fratelli Castiglioni, la moka Bialetti, le poltrone Frau, le scarpe Ferragamo, la Vespa 125
Esattamente mezzo secolo fa, nel 1972, il MoMA di New York ospitò la prima grande mostra del design italiano. Fu l’inizio di una stagione prodigiosa, che ha dato al nostro paese una fama planetaria. Oggi tanti oggetti di quello che Argan ha chiamato “Italian look” sono delle icone: basti pensare alla lampada Arco dei fratelli Castiglioni, alla moka Bialetti, alle poltrone Frau, alle scarpe Ferragamo o alle giacche Loro Piana, alla Vespa 125 o alla Fiat 500, alla Lancia Aurelia di Vittorio Gassman nel capolavoro di Dino Risi “Il sorpasso” (1962) o all’Alfa Romeo Duetto di Dustin Hofman nel film “Il laureato”. Una galassia di consumi popolari – definiti da Renato De Fusco nella sua Storia del design appena ristampata un “orgoglio della modestia” – e di consumi di lusso, trascinati dal miracolo economico. Basti pensare, inoltre, alla sedia Superleggera di Gio Ponti. Progettata nel 1955, era una “semplice sedia” domestica, prodotta artigianalmente e rivolta al grande pubblico grazie al suo basso prezzo di vendita. E’ stata poi considerata un oggetto di culto del disegno industriale. Attualmente è presente nelle collezioni dei musei dedicati al design dei cinque continenti. E’ insomma diventata “un classico”, ormai costosa e richiesta prevalentemente dalle classi agiate. Una sorta di eterogenesi dei fini, che però conferma la labilità dei confini tra arte e design.
Nel suo famoso saggio Of the Standard of Taste del 1757, da convinto empirista, David Hume non si preoccupa di definire l’idea del bello, ma di trovare i fondamenti del giudizio estetico. Constatando la grande varietà dei gusti, egli si pone il problema di trovare una “regola del gusto […] mediante la quale possano venire accordati i diversi sentimenti degli uomini […]”. Non esistono infatti delle regole a priori a cui rifarsi: la bellezza “non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente concepisce una diversa bellezza. Ma entro la varietà e i capricci del gusto vi sono certi princìpi generali di approvazione o di biasimo, la cui influenza può a uno sguardo attento essere notata in tutte le operazioni dello spirito”. Ma per cogliere tali princìpi, il gusto va educato e liberato dal pregiudizio. E questo è il compito precipuo del “buon senso”. Soltanto lui, unito a un buon uso della ragione, ci può guidare nella ricerca del piacere sensibile (La regola del gusto, Abscondita, 2006). Nella riflessione del pensatore scozzese, la capacità di discernere con equilibrio, saggezza e misura le necessità pratiche della vita quotidiana richiama allude a un valore tipico della nascente borghesia industriale.
Il poeta Novalis paragonava Goethe e Wedgwood, l’industriale inglese della ceramica: “Un buon gusto che è per sua natura economico”
Hume probabilmente aveva sentito parlare di Josiah Wedgwood (1730-1795), un imprenditore protagonista della rivoluzione industriale in Inghilterra. A lui si deve la costruzione di uno dei primi quartieri operai nel distretto dello Staffordshire, specializzato nella manifattura della ceramica. Già una volta nella storia dell’arte la ceramica era stata la mediatrice del genio artistico di una nazione; l’urna greca era divenuta i simbolo della grazia e della serenità del mondo antico. Wedgwood intendeva restituire all’arte vasaria l’antico splendore, e incaricò i migliori artisti del paese furono di copiare i modelli ateniesi o di adattarli agli usi moderni. Ma accanto a tutta la gamma dei prodotti decorativi e ornamentali, destinati a un pubblico di amatori e collezionisti, attraverso un processo di continue semplificazioni riuscì a rendere sempre più aderente la forma alla funzione pratica dei manufatti: ad esempio, la caraffa panciuta con il collo corto e largo, e con il bordo ricurvo, la si può ammirare ancora nei nostri giorni. Come ha osservato De Fusco nel suo testo (su cui si sono formate intere generazioni di studenti), che queste qualità venissero apprezzate negli Venti del Novecento, quando era in corso un acceso dibattito sul design, non desta meraviglia. Mentre è assai significativo che abbiano colpito un poeta del Settecento, Novalis, il quale accostò addirittura Wedgwood a Goethe: “Goethe è poeta compiutamente pratico. I suoi lavori sono come le suppellettili inglesi, estremamente semplici, nitide, pratiche e durature; egli ha, come Wedgwood, e solo in grazia della sua intelligenza, acquisito un buon gusto che è per sua natura economico; entrambi questi uomini hanno molte cose in comune, sono legati da una stretta affinità intesa quasi in senso chimico” (cit. in Herbert Read, Arte e Industria, saggio introduttivo di Gillo Dorfles, Lerici, 1962).
In conclusione, “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare” (Bruno Munari).