(foto Brescia/Amisano - Teatro alla Scala) 

l'opera

Boris Godunov e gli zar del male

Siegmund Ginzberg

Menzogna e manipolazione dietro al potere dei sovrani assoluti. Ma dall'opera lirica non escono innocenti nemmeno il popolo e l’élite

Stalin non perdeva mai una prima del Bolshoi. Poi commentava. Questo Boris Godunov, con tanta abbondanza di fantasmi di bambini trucidati e insanguinati, non gli sarebbe piaciuto. Nel 1936 aveva convocato il direttore d’orchestra Samuil Samosud, appena nominato a capo del Bolshoi, per dirgli che sia Puškin, sia, dopo di lui, Musorgskij, avevano pervertito l’immagine di Boris Godunov. “E’ rappresentato come un piagnone, un mollaccione, uno che ha tormenti di coscienza solo per aver ammazzato un ragazzino”. Sarebbe una sciocchezza. Contraddirebbe l’evidenza, cioè il fatto che, da uomo di stato, Boris doveva sapere benissimo che “tutto questo era necessario per portare la Russia verso il progresso e verso un autentico umanismo”. 

Sulle parole di Stalin abbiamo la testimonianza di Šostakovich. A riferirgliele sarebbe stato Samosud stesso. Le critiche teatrali di Stalin erano un diktat. Da allora in poi le rappresentazioni russe del Boris Godunov furono corrette. La cosa certa è che Stalin di tormenti di coscienza non ne aveva. La terribile guerra civile e la carestia avevano creato milioni di orfani. Ne morivano a bizzeffe. I sopravvissuti si organizzavano in bande di ragazzini senza parenti o assistenza (vennero censiti sette milioni di besprizornye). Terrorizzavano città e villaggi. Rubavano, saccheggiavano, incendiavano, torturavano, uccidevano (pare che le più cattive e spietate fossero le ragazze). La gente non ne poteva più. Chiedevano, come fa il Folle di Dio nel Boris Godunov, che lo zar li liberasse dal flagello degli accattoni e dei piccoli vagabondi, li punisse, li ammazzasse: “I ragazzini mi hanno rubato un copeco, ordina di sgozzarli, come hai sgozzato il piccolo zarevich”. Stalin aveva udito la voce del popolo e lo aveva accontentato: venne disposta la pena capitale anche per i minorenni, si poteva finire nel gulag a nove anni. “Sono giovani, sopravviveranno” avrebbe risposto il dittatore a chi obiettava l’eccesso di severità. Crudeltà o Realpolitik? 

L’altra obiezione di Stalin era che, nei vecchi allestimenti, il popolo veniva rappresentato solo come oppresso, passivo. Lo accontentarono, raddoppiarono le scene di massa, reintroducendo, senza badare alle ripetizioni, quelle che Musorgskij aveva eliminato da una stesura all’altra. Nella prima stesura del compositore, quella andata in scena all’inaugurazione della stagione alla Scala, il popolo chiede la carità allo zar: “Padre nostro, sovrano […] signore, padre […] dài del pane! Pane agli affamati! Pane! Pane! Dacci del pane, padre, per amore di Cristo!”. Nelle stesure successive il popolo è attivo, si ribella, prende parte alle svolte della storia. Anche se non proprio del tutto spontaneamente. Nella scena iniziale, il popolo invoca l’uomo forte, chiede a gran voce che un Boris riluttante accetti la corona per por fine all’anarchia, alla mancanza di decisioni, all’impotenza: “Vogliamo che la Russia abbia uno zar!”. Fosse una repubblica parlamentare, anziché la Russia al tempo dei torbidi, a cavallo tra 1500 e 1600, forse invocherebbero il presidenzialismo. Si capisce che qualcuno, da dietro le quinte, li ha manipolati, li ha convinti con argomenti che non si possono rifiutare. 

Quest’opera inizia quasi sempre con un uomo in uniforme che minaccia con un bastone il popolo adunato. Talvolta chi brandisce il manganello (o il fucile, o il mitra, o l’alabarda) non è in uniforme. Nella versione del regista Kasper Holten ad esortare e minacciare è un civile, un intellettuale (forse un giornalista? ad indicare che il potere soft, di convinzione dei media, può essere ancora più efficace della forza bruta?). Le donne – sempre loro le più coraggiose e sfacciate – lo prendono in giro: “Sentilo, si crede una guardia”. E lui: “Allora, che avete? Perché state fermi come statue? […]. Forza! (li minaccia con qualcosa che sembra una tavoletta, anzi un tablet su cui ha scritto qualcosa, anziché con un bastone, come vorrebbe il libretto) Avanti! (irritato) Figli del diavolo! […] Ma che avete? Perché avete smesso? Volete risparmiarvi la gola? (minacciando di nuovo) Ecco cosa vi aspetta! Da troppo tempo le vostre spalle non assaggiano la frusta! ”. “Perché gridiamo?”, chiede qualcuno. “E che ne so io”, è la risposta. Li hanno imbeccati perché invocassero l’incoronazione di Boris. Poi li imbeccheranno perché maledicano lo stesso zar Boris. Chi? Lo si indovina a vederli passare tracotanti in scena, in entrambe le occasioni. Sono i boiari, i grandi di Russia, ai quali Boris, ossessionato com’è dai suoi incubi, ormai incapace di governare, non serve più.

Il popolo non ci fa una bella figura. E’ volubile. Cambia idea. Si fa manipolare da populisti e potenti. Gli serve una guida ferma (lo zar, il patriarcato, il partito). Al termine del primo quadro, nel cortile del monastero di Novodevici, vengono apostrofati: “Ehi, voi, branco di montoni. Per voi c’è un decreto dei boiari: dovete essere domani al Cremlino ad attendere là gli ordini. Avete sentito?”, è il modo in cui vengono apostrofati. Gli consegnano icone, vesti e amuleti. Ai tempi nostri gli fornirebbero cartelli e striscioni. E quelli: “Ecco, allora è per questo che ci hanno riuniti! Ma a noi che importa? Ordinano di gridare, e noi grideremo anche al Cremlino. Grideremo. Perché non gridare? Allora? Andiamo, ragazzi?”. E’ una costante storica: chi più parla di popolo meno rispetta il popolo. Lo sanno bene in Cina. Lo sanno bene in Iran. Pensavo che l’avessimo capito anche in Italia. Non so agli altri spettatori. Ma a me, che l’ho vista in televisione, quindi in primo piano, la scena ha ricordato le adunate maoiste in piazza Tiananmen, e il grande comizio allo stadio di Putin, subito dopo l’invasione dell’Ucraina.

Attualizzo troppo? Anche Puškin e Musorgskij attualizzavano. Il compositore, per sua stessa ammissione, era dedito a “cercare il presente nel passato”. L’uno e l’altro riscrissero le rispettive opere più volte. Perché costretti dalla censura (il censore di Puškin era niente meno che lo zar in persona), ma anche perché cambiavano gli avvenimenti, cioè ciò che doveva suscitare emozioni, pensieri, richiami, nelle sinapsi degli spettatori.

Nel Boris Godunov tutti mentono. Tutti fingono. Tutti sono, a modo loro, impostori. Sia nel dramma di Puškin che nell’opera di Musgorskij. Contano poco o nulla i fatti. Nessuno è interessato a come stanno davvero le cose. Contano invece moltissimo le voci incontrollate, le insinuazioni, i sentiti dire. Si direbbe che è l’apoteosi della fake news, del si dice, della calunnia a mezza voce. Tutti raccontano e si raccontano storie, fandonie. E ognuno sa benissimo che l’altro gli sta mentendo. Dall’ostessa ai suoi avventori, dal comandante del posto di blocco, alla preda che gli sfugge tra le dita, dal monaco che non è un semplice monaco, al suo padre spirituale che non è un semplice santo. C’è chi ha osservato che non si tratta affatto di un dramma d’azione, ma piuttosto di un continuo dialogo tra versioni diverse di uno stesso avvenimento, di una lotta continua tra storie contrapposte, menzogne contrapposte, ognuna delle quali aspira a presentarsi come la verità. Padrone assoluto della verità è lo zar. Ha il monopolio dei mezzi di informazione, delle notizie, e ha un formidabile apparato di servizi segreti. Eppure non gli basta.

Boris dice all’inizio di non aspirare al trono. Quando è chiaro che invece non pensa ad altro. Pietro il Grande si era fatto passare come semplice carpentiere per conoscere l’occidente e apprendere i segreti della sua superiorità economica e tecnologica. Aveva finto di rinunciare al trono per istallarvi una sua creatura. Ma poi era tornato a riprendersi il potere pieno, come fece Putin dopo la finta alternanza con Medvedev. Boris vuole innanzitutto sapere: cosa fanno i nemici, chi complotta contro chi, cosa dice la gente sullo zar, che voci girano. Lui sa già che nella vicina Lituania è apparso uno che pretende di essere lo zarevich che tutti credono morto bambino di morte violenta. Interroga il boiaro Šujskij che a suo tempo aveva mandato a indagare sulla faccenda della morte dello zarevich. Vuol sapere se ha riconosciuto il cadavere del bambino, vuole essere certo che non ci siano davvero veri pretendenti in giro. “Ti prometto misericordia per le tue passate menzogne, ma se menti, te lo giuro sulla testa di mio figlio, avrai una punizione così orribile che lo zar Ivan [Il Terribile, torturatore spietato] dall’orrore trasalirà nella tomba!”.   

Mentono i boiari, che gli giurano fedeltà e cercano di ingraziarselo, quando hanno già deciso di tradirlo. Mente il falso pretendente al trono, il falso monaco Grigorij Otrepev, detto Griška, il quale si spaccia per il trucidato zarevich Dmitrij. Si sa – ma questo non c’è nell’opera – che, dopo aver conquistato Mosca con l’aiuto di polacchi e gesuiti, ed aver regnato per solo un anno, verrà decapitato, squartato, fatto a pezzi, bruciato, e i resti sparati con un cannone in direzione della Polonia. Crudeltà inutile? No, crudeltà simbolica, ragion di stato. Di questi tempi l’avrebbero sparato in direzione dell’Ucraina. 
Certi odii e certe paranoie hanno radici profonde. Prima che si inventasse come nemico l’occidente tout court, gli zar russi, campioni dell’Ortodossia, erano ossessionati dalla confederazione tra Polonia e Lituania, cattoliche, e dalla loro influenza sulle terre di frontiera dei cosacchi (non è una denominazione etnica, viene dal turco kaçak, fuggitivo) in quella che oggi è l’Ucraina. Esattamente quanto i polacchi sono stati sempre ossessionati dall’indipendenza dal dominio russo. C’era anche una ragione economica: i ribelli a Mosca che si concentravano nelle foreste al confine con la Polonia erano servi della gleba scappati ai padroni esosi e alle tasse dello zar.

Quando nel 1866 Alessandro II sfuggì per un pelo a quello che viene considerato il primo gesto di terrorismo, la prima cosa che chiese all’attentatore, subito disarmato e sopraffatto dalla scorta, fu: “Sei polacco?”. Non lo era, era uno studente russo. Ma non ci fu verso di levare dalla testa all’opinione pubblica russa che fosse stato manovrato dai polacchi. Il Bolshoi e il Marinskij avevano rimesso per l’occasione in cartellone Una vita per lo zar, l’opera di Glinka di trent’anni prima il cui protagonista è Ivan Susanin, un eroe russo che salva, a rischio della propria vita, da un attentatore polacco, il fondatore della dinastia dei Romanov, i potenti boiari che avevano fatto cadere Boris Godunov, dandogli dell’assassino di bambini. Un Pëtr Ilich Ciajkovskij appena venticinquenne era andato ad assistere allo spettacolo. Rimase impressionato dal fanatismo antipolacco del pubblico. Scriveva ai suoi: “Appena apparvero sul palcoscenico (gli attori che impersonavano) i polacchi il pubblico balzò in piedi a urlare: ‘Abbasso i Polacchi!’. Nell’ultima scena del quarto atto, in cui i polacchi mettono a morte l’eroe Susanin, il cantante che recita la sua parte resistette ai suoi carnefici con tanto realismo da mettere fuori combattimento diversi coristi ‘polacchi’. Gli altri ‘polacchi’ si gettarono prontamente a terra per evitare la sua furia”. L’800 è il secolo in cui le passioni politiche esplodono nei teatri d’opera. Era già successo qualche anno prima, nel 1858, alla Scala, alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza. I milanesi si erano immedesimati nel canto di “Guerra, guerra” nel quale i Galli nella Norma di Bellini invocano “Sangue, sangue, strage, strage, sterminio, vendetta!”. Si erano uniti al coro, suscitando la reazione furibonda degli ufficiali austriaci presenti in sala. Ciajkovskij ironizza sul fanatismo del pubblico troppo partecipe. Ma l’Ivan Karamazov di Dostoevskij, e molti altri, ce l’hanno davvero a morte a morte coi polacchi, e con il Papa di Roma, così come con gli ebrei. 

Mentono i potenti e mentono uomini di chiesa e santi. Mentono e fingono gli amici, e mentono e fingono i nemici. Mente lo zar. Mentono i gregari. E il guaio è che non mentono solo agli altri. Mentono soprattutto a se stessi. Più furbi sono più sbagliano i calcoli, prendono abbagli, hanno allucinazioni. Si perdono con le proprie mani. Gli zar, tutti i despoti, tutti gli autocrati impazziscono quando sospettano che qualcuno cerchi di scalzarli. Succede non solo nella Russia di Boris Godunov, o nella brumosa Scozia leggendaria di Macbeth, o nella Cina degli imperi celesti o rossi che siano.

Ho trovato suggestivo che il fondale del palcoscenico si srotoli, dall’inizio alla fine dell’opera, come una grande pergamena. Si tratta evidentemente di un richiamo da parte del regista alle fonti, alle complesse radici storiografiche e letterarie. Ma si sa che si contraddicono, fanno a pugni tra di loro, mentono anche le fonti scritte. Si smentiscono tra di loro gli storici. Anche gli autori si contraddicono, cambiano frequentemente idea, canovaccio, successione di scene e di narrazione, direzioni di regia, persino spartito musicale. Ognuno tira Boris dalla parte dove vuole parare. Un mostro per i Romanov che da lui furono perseguitati. Un innocente calunniato, un riformatore, che voleva tenere a freno i boiari, i poteri forti, secondo altri. 

Esagera un po’ il maestro Chailly nel dire che con la versione da lui diretta del Boris Godunov Putin non c’entra. Forse non poteva dire diversamente, viste le polemiche sulla scelta di un’opera russa per l’inaugurazione di quest’anno. Non si condona la stupidità, nemmeno, anzi soprattutto quando viene da parte di chi ha ragione, degli aggrediti, delle vittime. Ma Putin c’entra, eccome. Lo zar è proprio lui. Non solo la vertigine del potere, ma anche la fragilità del potere, la disperazione di chi teme di vederselo sfuggire di mano, gli intrighi di palazzo, le menzogne di regime, le false accuse rivolte ai nemici, l’ammantarsi della volontà del popolo per compiere i peggiori misfatti, la calunnia come strumento di propaganda, l’assassinio, l’eliminazione fisica degli avversari come metodo di governo, ci parlano dell’attualità. Del Cremlino e della Russia dei nostri giorni. Della Russia di sempre. E forse non solo della Russia.

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