Foto dal profilo Instagram di Lea Vicens (@en_casa_de_lea) 

Il riposo del torero

Caterina Di Terlizzi

A dicembre i tori non fanno paura e i matador europei vivono sospesi fra l’illusione della feria e la voglia di combattere. È un letargo apparente l’attesa della nuova stagione di corride

Lungo la sponda del fiume Guadalquivir, a Siviglia, fino a qualche giorno fa, si aggirava nostalgico Manuel Jesus Salas, in Spagna celebrato come El Cid, famoso Matador di tori. Commosso, ci raccontava, sospirando davanti a una birra gelata sul tavolo d’angolo del mercato di Triana: “Ho finito la mia carriera in arena. Quando smetti di toreare provi ad essere una persona normale, aprire magari un negozio, ma qualunque cosa cerchi di fare, il toro continua ad ammaliarti. Io penso ai tori tutto il giorno, sono perso in quella voragine”. Gli occhi castani del Cid brillavano malinconici, “Chissà, forse un giorno tornerò in arena”.

 

Quel giorno non era poi distante, sui giornali spagnoli di questi giorni, titoloni annunciano che El Cid, lontano dalle arene dal 2019, ricomincerà a combattere, risfoderando il coraggio, per aggiungere una nuova pagina alla storia della tauromachia. “Mi torna in mente il trionfo della Porta Grande di Bilbao, con il quinto toro durante una corrida in solitaria, la coda in premio del toro di Bayona, erano vent’anni che un torero non riceveva questo riconoscimento in arena e poi ancora toreare tori provenienti da qualsiasi tipo di ganaderia, gli allevamenti: cattivissimi Miura, agili Garcigrande, pericolosi Victoriano del Rio e massicci Juan Pedro Domeq. Riuscire a trionfare, uccidendo tori arrivati da qualsiasi allevamento, ti porta a diventare figura del toreo, un fuori classe, matador più acclamato del momento, esempio per le generazioni future” ricorda eccitato all'idea del ritorno.

 

La nostalgia della tauromachia non tocca solo Manuel. A dicembre i tori non fanno paura, almeno ai matador che non competono nelle arene sudamericane. I toreri europei vivono sospesi fra l’illusione della feria e la voglia di combattere. A Siviglia, i raggi tiepidi dell’ultimo sole autunnale illuminano l’Alcazar, il Palazzo Reale, e il vento di tramontana accompagna, lungo i viali punteggiati da alberi di aranci, Lea Vicens, la bellissima torera a cavallo, Rojeaneador in gergo, originaria di Nimes, città francese nota per l’imponente arena romana e la tradizione di mulete. Lea affronta i tori, nelle corride a cavallo, montando bellissimi purosangue. A differenza della tradizionale corrida che prevede: matador, picadores, banderilleros, Lea Vicens combatte da sola montando un energico destriero.

  

Torera o torero, le chiediamo? Lea Vicens, considerata la più grande torera a cavallo, detesta il rosa. Arriva puntuale all’appuntamento, golfino stretto bianco sul fisico d’acciaio. “Essere una donna non è diverso nel mondo dei toreri, tutti mi rispettano, riconoscono i sacrifici del mio lavoro. Fra noi, gli allenamenti sono uguali, per i maschi e per le femmine” risponde sicura. Da bere, tra le luci del mercato andaluso di Triana, sotto i prosciutti Pata Negra appesi in fila, ordina solo acqua frizzante, “La fatica, tra gli uomini e le donne, non muta, siamo uguali, noi toreri. Non ci sono sessi qui, tutti pensiamo a una sola cosa, sempre: al toro che ci carica, sollevando nugoli di sabbia tra gli zoccoli”.

   

Da ottobre a marzo, quando può riprender fiato per la fine della stagione taurina in Europa, Lea Vicens addestra cavalli toreri, si riposa, allenta la pressione, ma non dimentica l’ossessione. Si allena con i destrieri, tre o quattro anni di scuola, avvezzi alla velocità, perché i tori da corrida a cavallo galoppano formidabili e agili. La tenacia e la determinazione di Lea proviene dai suoi studi “Non volevo essere torera, ho iniziato la carriera universitaria da biologa, poi a 19 anni ho cambiato idea”. Gli studi universitari le servono per strutturare un pensiero, organizzare il lavoro, la vita, sviluppare idee, “la biologia mi serve per capire gli animali” afferma Vicens.

   

Usciamo ora dalla città, in cerca della cultura della corrida e, appena quindici minuti di macchina da Siviglia, in località Pueblo del Rio le distese di risaie fanno da confine al “campo” dove si stende la ganaderia Herederos de Dolores Rufino, storico allevamento di tori. Lì opera Daniel Martinez, il ganadero, il proprietario del campo, ha la camicia stretta nei pantaloni dal cinturone di cuoio. Martinez, volto paonazzo per il gran lavoro all’aperto, alleva il bestiame per l’anno venturo, l’inverno, in ganaderia, ci spiega “È il tempo per marchiare i tori, farli riprodurre, organizzare gli allenamenti dei toreri”. All’interno del campo sorge una piccola arena, usata dai toreri per valutare le vacche, la più forte verrà usata per la riproduzione, i tori, si dice, prendono il carattere dalla madre e quindi serve che sia la migliore.

   

Ci sono fino a cento femmine, inseguite dai torelli che “mammano”, meravigliosa parola spagnola per indicare la fase dell’allattamento. Pascolano fra morbide colline, sfumanti nella luce rosa, sotto il vento africano. Domani verranno marchiati a fuoco: anno di nascita, stemma Herederos de Dolores Rufino, numero di serie. È la loro carta d’identità, specifica per ogni toro. Da questo momento, l’animale verrà guardato da lontano per cinque, lunghi, anni, e avvicinato solo a cavallo. “Il toro deve rimanere “bravo”, selvaggio, non imparare che gli uomini appiedati sono bersagli da colpire” conclude Daniel, con perfetto garbo.

   

Sul calar della sera, la strada ci porta indietro dal campo Herederos de Dolores Rufino, al bar di Piazza Cuba, pieno centro di Siviglia, dove beve il caffè Francisco Javier, detto Curro Javier. È un banderillero di rango, ancora slanciato, folti capelli argentati. Lui segue una doppia fede, corride e la cuadrilla del matador Miguel Angel Perera, la squadra a cui appartiene. Il suo compito in arena è configgere due banderillas, cavicchi rotondi lunghi settanta centimetri, avvolti in carta colorata, armate con punte di ferro, dritte nella schiena del toro, per rallentarlo, senza togliergli forza e precisione. Il lavoro di Curro Javier non è di certo un lavoro normale, lui deve correre verso il toro, saltare e con un movimento fluido infilare le banderilleras nella possente schiena dell’animale.

  

I banderilleros vivono solo se capaci di volare sulla sabbia, “Ci alleniamo come sprinter nell’atletica, io faccio maratone, arrampicate, salti in alto” ammette ridendo Curro Javier. In arena lo si riconosce per il vestito ricamato d’argento e per il dialogo di sguardi, senza parole, che scambia con la cuadrilla di Perera. Per lui niente stagione di riposo, “Vivo per i tori, quando non si fanno corride, viaggio, faccio sport, provo a recuperare, poi mi rendo conto che le corride ricominceranno presto, devo mantenermi agile, ricomincio da capo. Grazie a questo regime severo, ho realizzato i miei sogni”.

  

Per il mondo taurino il pensiero di tornare in arena è sempre molto vivo. Finisce il giorno ma i toreri non tramontano mai neanche quando depongono la spada. Il clamoroso ritorno del Cid ne è la prova.

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