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Prima del Reddito di cittadinanza

Charles Dickens e tutti gli altri. Una storia letteraria della povertà

Siegmund Ginzberg

Pigri, scrocconi, parassiti: la distinzione tra loro e “chi ha davvero bisogno” ha impegnato scrittori (e moralisti) come Erasmo e Moro, Swift e Defoe. Le loro soluzioni furono spesso spietate

Nel Natale del 1690 Roma fu presa dallo sgomento. C’erano guerra e carestia alle porte. Il Cristianissimo, il Re di Francia, stava aprendo un nuovo fronte in Italia contro gli imperiali e i loro alleati. C’era un’inflazione dei prezzi degli alimentari, dovuta a una proliferazione eccezionale di roditori, i quali assalivano vigne, orti e tenute e si temeva potessero divorare pure il grano seminato. A questo si aggiunsero voci sull’arrivo di un nuovo male contagioso, che si presumeva fosse peste. Sulla guerra e l’inflazione non si poteva fare granché. Il governo pontificio prese però immediati provvedimenti di polizia contro gli immigrati e i vagabondi. E pure contro i pellegrini, che erano i “turisti poveri” dell’epoca, rendevano poco agli osti e agli albergatori. Fu subito sospeso il commercio con il Regno di Napoli, e venne raddoppiata la vigilanza alle porte di Roma. Seguì la solita retata di poveri indesiderati. 

Ce l’avevano con i “falsi poveri”. I “veri” poveri erano in teoria assistiti da una miriade di opere di carità, private e pubbliche, dai conventi che distribuivano “la broda”, ai palazzi la cui servitù elargiva “gli avanzi di tavola”, alla confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini che garantiva ai turisti pii un bagno, un pane e un tetto. Mentre, già da un paio di secoli almeno, bandi ed editti minacciavano, non solo a Roma ma in tutte le grandi città d’Europa – a vero dire senza gran successo – espulsione, deportazione, marchio d’infamia, frusta, gogna, carcere, galera e lavoro coatto agli “oziosi e vagabondi”. 

Non c’è a ben vedere molto di nuovo nelle polemiche dei giorni nostri sul reddito di cittadinanza. E’ vecchia come il cucco la distinzione tra “chi ha davvero bisogno” e i “furbetti” che se ne approfittano perché “non hanno voglia di lavorare”. La distinzione è antica. Si trascinerà per secoli, fino ai giorni nostri. Pinocchio, burattino messo al mondo dal funzionario Carlo Lorenzini, in arte Carlo Collodi, in un’Italia ottocentesca da poco riunificata in cui ancora molti patiscono la fame, impara a sue spese l’insegnamento del suo babbo, e cioè che “i veri poveri in questo mondo, meritevoli di assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione di età o di malattia, si trovano condannati a non poter più guadagnare il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per loro”. Charles Dickens, il campione dei poveri, degli orfani e dei diseredati nell’Inghilterra vittoriana, non fa regali a chi non ha voglia di lavorare. Era bambino, aveva solo dieci anni, quando dovette lasciare la scuola e andare a lavorare in una fabbrica di vernici, dormendo in una soffitta e andando a passare le domeniche col babbo, in prigione per debiti. Il suo Fagin, che addestra i bambini come Oliver Twist a rubare, non è un eroe. I suoi contemporanei Friedrich Engels e Karl Marx erano indignati dalle condizioni di vita e di lavoro degli operai, allo sfruttamento dei bambini in fabbrica, ma disprezzavano il sottoproletariato che viveva di espedienti. Ancora di più disprezzavano quelli che si travestono con la bisaccia del povero per mettersi alla guida del “popolo” derelitto. Vedi Il Manifesto del Partito comunista. 

I provvedimenti nella Roma del ’600 contro i pellegrini, che erano i “turisti poveri” dell’epoca: rendevano poco agli osti e agli albergatori

Che fare dei poveri o per i poveri è un tema ricorrente. La feroce ironia di Jonathan Swift gli aveva fatto avanzare, un secolo prima, la Modesta proposta che gli irlandesi mangiassero i propri bambini, anziché costringerli a mendicare. Daniel Defoe è noto per il suo Robinson Crusoe, l’eroe dell’intraprendenza individuale, che sa arrangiarsi in mezzo alle difficoltà. Ma conosceva bene la miseria della sua Inghilterra. La povertà e le disavventure di povera Moll Flanders, e di sua madre prima di lei, sono quelle di milioni di inglesi della sua epoca. E’ meno noto che Defoe scrisse nel 1704 anche un saggio in cui, sin dal titolo, sosteneva che Fare l’elemosina non è carità, dare lavoro ai poveri è un danno per la nazione. L’argomento è che non bisogna abbandonare la retta via delle leggi contro i vagabondi e i mendicanti, perché “se fossero severamente applicate impedirebbero alla triste genia dei vagabondi di moltiplicarsi”. Quindi niente elemosine: “L’elemosina fatta in maniera sbagliata può essere carità per la persona che la riceve ma è certamente un danno per la generalità dei cittadini, non è affatto carità per la nazione”. E allora niente lavoro obbligato in fabbriche-prigione, “fabbriche artificiali”, create al solo scopo di dar lavoro e tenere occupati i poveri, “perché il lavoro così procurato al lavoratore disoccupato toglie lavoro al lavoratore occupato”. Semmai un’assicurazione contro la disoccupazione, così come si assicurano gli affari (c’è chi lo accredita addirittura di aver anticipato il welfare state). La sua attenzione, come per altri pensatori della sua epoca, è tutta sulla crescita. Se non si produce, se non c’è crescita, non c’è nulla da distribuire, né ai ricchi né ai poveri. Difficile dargli torto, se non se la prendesse tanto con i poveri e la loro “pigrizia”, per partito preso. E’ come se li tenesse ostaggi della sua argomentazione. Defoe, che è un datore di lavoro, dice di saper bene, per esperienza personale, che “il motivo per cui tante persone fingono di volere un lavoro è nel fatto che esse riescono a vivere bene fingendo di volere un lavoro. Sarebbero infatti dei pazzi a mettere da parte una simile finzione per cercare sul serio un lavoro”. Matteo Salvini, Matteo Renzi e Carlo Calenda non potrebbero dire meglio. Defoe faceva il lobbista per il governo. A pagamento naturalmente. L’interesse del governo è ridurre le spese assistenziali. 

Ma torniamo un attimo nella Roma del Seicento. C’è una sola cosa riguardo i poveri che fa più paura del timore che prosciughino le casse dello stato: che si rivoltino. La Grande paura del 1789 era la jaquerie nelle campagne, i vagabondi che incendiavano, saccheggiavano, ammazzavano. Che ce l’avessero con nobili e benestanti, o fossero istigati, come correva voce a Parigi, dai nobili fuoriusciti, era secondario. Giusto un anno dopo la piccola grande paura romana del 1691, il 27 dicembre 1692, un martedì notte, “successe una specie di sollevatione ne poveri dell’ospedale lateranense”, ove “essendo accorsi opportunamente gli sbirri, ne furono condotti 15 nelle carceri per darli il castigo; con che fu quietato il rumore accresciuto notabilmente dalle ciarle”. L’elemosina a chi la merita, botte agli altri. Alla bisogna, comunque, mazzate agli uni e agli altri, perché “è meglio che muoiano di fame cento innocenti, anziché ce ne sia uno che se ne approfitta” (detta così non la troverete da nessuna parte, è una parafrasi di mio conio). In realtà, allora come oggi, i confini non sono così marcati. Se si va a vedere chi erano i reclusi che si erano ribellati, viene fuori che erano artigiani non più in grado di lavorare per motivi di età o di invalidità, domestici mandati via dai datori di lavoro, braccianti, vedove abbandonate da tutti, in età compresa tra i 60 e i 70 anni. Per metà erano romani, ma non mancavano marchigiani, napoletani, emiliani, lombardi. Tutti immigrati illegali, stranieri allo stato pontificio, ché l’Italia ancora neanche c’era. 

Defoe è contrario all’elemosina e al lavoro obbligato in fabbriche-prigione. Il punto è impedire alla “triste genia dei vagabondi di moltiplicarsi”

La Città santa ed eterna richiamava pellegrini da tutte le parti del mondo. Si sobbarcavano viaggi lunghi e pericolosi. Molti non avevano alcuna voglia di tornarsene da dove erano venuti. Sceglievano di restarsene a Roma, e vivere di carità se gli era possibile, di elemosine, o di altri espedienti se non funzionava. E poiché nell’elemosina erano giustamente privilegiati i “veri” poveri, ecco i mendicanti per elezione trasformarsi in specialisti di finzione, ingegnarsi nel fingere “membri stravolti, piaghe infistolite, attrazioni di nervi, apparenti lividure, stralunamenti, tremori artifiziosi, studiate paralisi”. Seguo il magnifico studio di Michele Fatica: Il Problema Della mendicità nell’Europa Moderna (secoli  XVI-XVIII), pubblicato da Liguori nel 1992. 

In tutta Europa ci sono, da un momento in poi, uomini che odiano i poveri. E’ un astio sordo, profondo, diffuso. Ce l’hanno con gli sfaticati, gli oziosi e i vagabondi, con quelli che in italiano barocco vengono chiamati i “birbanti”. “Astuti bianti, vagabondi pitocchi, cantalusci noiosi, artifiziosi truffatori, ingannevoli ciarlatani, superstiziosi inventori di santità, fraudolenti frappatori, venditori di favole, trafficanti di fintioni, ippocriti infingardi, cerretani furbeschi”: così li cataloga un testo seicentesco. Interessante: i mestieri elencati, quelli che hanno a che fare con le fintioni, fiction si dice ai giorni nostri, sarebbero diventati un giorno i più redditizi, i più onorati e celebrati. Anzi, sono il perno dell’economia. Vince, in tutti i settori, chi è più furbo, chi sa fingere bene, racconta più favole e meglio degli altri, fa audience. 

Interessante: i mestieri sanzionati, quelli che avevano a che fare con le “fintioni”, sarebbero diventati un giorno i più redditizi e onorati

Non tutti a dire il vero ce l’avevano con loro nemmeno al tempo che fu. Tra le perle della letteratura spagnola nel Siglo de oro ci sono capolavori come il Lazzarillo Tormes, o La vita del pitocco, in cui gli eroi sono proprio i poveri, gli accattoni che si ingegnano per vivere. Camporesi aveva raccolto, in un bellissimo volume di Einaudi intitolato Il libro dei vagabondi, lo Speculum cerretanorum di Teseo Pini, Il vagabondo di Rafaele Frianoro e altri testi a lungo dimenticati di “furfanteria” italiana, che trattano con simpatia di un mondo di poveri, i diseredati, mendicanti che si ingegnano per sopravvivere. 

I più però li odiano, ne hanno schifo e paura. Ci sono molti motivi per odiare i poveri. Uno è il senso di colpa: il ritrovarsi a star bene, magari ad avere più del necessario, mentre intorno a te ci sono persone a cui manca magari tutto. Un altro è l’invidia, l’idea insopportabile che il povero possa diventare più ricco di te, lavori meglio di te, abbia i tuoi stessi privilegi conquistati a duro prezzo. E’, per intenderci, la ragione per cui tanti “vecchi” immigrati in Gran Bretagna, dall’India e dal Pakistan, hanno votato Brexit contro i “nuovi” immigrati, dall’Afghanistan o anche dall’Europa. Un altro è la paura. La paura che ti portino via la roba, o il posto di lavoro, o la donna. O la paura tout court: del buio, del nero, del diverso, dello straniero, del ladro, dello stupratore, dell’assassino, di quelli che rubano i bambini. Non importa che a maltrattare e a uccidere i bambini (e le donne) siano quelli di famiglia, non gli estranei. I poveri, come gli immigrati, fanno paura. Sono scomodi, fastidiosi quando chiedono l’elemosina. Sono brutti, sporchi e cattivi. Pretendono e non danno nulla (non è vero per niente: sono gli immigrati – e altri pensionati – a pagarci le pensioni). La scusa più diffusa, più facile, più abusata, è che ci sono poveri veri e poveri che solo fingono di esserlo. La cosa più insopportabile è l’odio ideologico. Senza saperne niente, senza neanche avere avuto a che fare con loro, solo perché c’è chi te lo ripete ogni giorno. Come successe ai tedeschi nei confronti degli ebrei. 

Uomini che odiano i poveri: nel ’500 stanno per scatenarsi le terribili guerre di religione, eppure si discute soprattutto di come combattere l’accattonaggio

C’è un momento in cui le migliori menti d’Europa dedicano buona parte della loro attenzione al problema di come gestire la povertà. Il tradizionale atteggiamento benevolo nei riguardi dei poveri fa posto ad un crescente fastidio e sospetto. Il povero, da disgraziato da compatire e aiutare per acquisire benemerenze nell’aldilà, diventa questuante molesto, imbroglione da tenere a bada, quando non addirittura un pericolo pubblico. Che sia la conseguenza a lungo termine della peste, della pandemia che aveva colpito così duramente e decimato la popolazione dell’intero continente? C’entrano gli sconvolgimenti del clima che mettevano a dura prova raccolti e i rendimenti agricoli, la cosiddetta “Piccola età glaciale” che aveva colto tutti di sorpresa. Sul fenomeno ancora oggi gli studiosi non hanno una spiegazione univoca. Allora avevano almeno su questo idee più chiare: era colpa delle streghe. Cominciarono a processarle e bruciarle, ma non bastò a far recedere il freddo. Dipende dallo spopolamento delle campagne e dall’accrescimento e dall’accentrarsi eccessivo di popolazione nelle città? O dalla difficoltà delle imprese cittadine a trovare mano d’opera sul mercato del lavoro? Oppure dal fatto che, di fronte a salari eccessivamente bassi per troppe e troppo faticose ore di lavoro, gli immigrati dalle campagne in città preferiscono piuttosto mendicare? 

Siamo alla vigilia del grande scisma dalla Chiesa di Roma. L’Europa alla vigilia di un’èra di tregenda, una notte oscura in cui si scateneranno tutti i suoi diavoli. Eppure gli intellettuali dibattono soprattutto di poveri. Lutero invita ad abolire l’accattonaggio in tutta la Cristianità: ogni città dovrebbe mantenere solo i propri poveri, e solo per lo stretto necessario, limitandosi a far sì che non muoiano di fame e di freddo. Nessuno deve restare ozioso e approfittarsi del lavoro altrui. La polemica è con gli ordini mendicanti della Chiesa di Roma. In Germania sta per scoppiare la guerra dei contadini, che sarà soffocata nel sangue dei contadini, con l’approvazione entusiasta di Lutero. Stanno per scatenarsi le devastanti guerre di religione tra cattolici e protestanti – praticamente una guerra mondiale Zero. Ma non si discute quasi d’altro che del problema dei poveri e mendicanti. Nel 1524 Erasmo da Rotterdam mette in scena nei suoi Colloquia un dialogo tra due mendicanti, nel quale Scansafatiche (Misoponus, “quello che odia la fatica”) spiega al suo amico e collega che “in città circola ormai la voce che ai mendicanti non sia concessa più la libertà di andare dove vogliono, ma ogni comunità mantenga i propri accattoni e tra essi, quelli che godono di buona salute siano costretti a lavorare”. Colpa dei falsi poveri, dalla cui scarsa voglia di lavorare derivano “male azioni in quantità”, e “un danno tutt’altro che lieve” alla città e ai veri poveri. Lo stesso anno Thomas Moore pubblica in Inghilterra la sua Utopia, dove la lotta alla pigrizia e all’ozio è uno dei cardini del governo dell’isola. Segue la pubblicazione, nel 1526, ma lungamente maturata in gran segreto, dell’opera più nota del suo amico e corrispondente, l’umanista spagnolo Luis Vives, il De subventione pauperum.

L’idea insopportabile che il povero possa diventare più ricco di te: tanti “vecchi” immigrati in Uk hanno votato Brexit contro i “nuovi”

Vives è assolutamente convinto della necessità di aiutare i poveri. Ma ritiene che questo aiuto debba essere regolamentato, controllato, anzi irreggimentato. Inutile, anzi dannoso dare a chi non lo merita. Ad esempio, chi dà in beneficenza a un giocatore d’azzardo non fa il suo bene, ma solo il suo danno. Bisogna sapere a chi si dà. Del personale appositamente delegato deve visitare e ispezionare le strutture dove sono ricoverati i poveri. Gli amministratori della città sono tenuti ad avere un quadro il più possibile esatto della situazione. I mendicanti vaganti senza fissa dimora, siano essi sani o malati, devono dichiarare le proprie generalità e i motivi del loro mendicare; in caso di rifiuto, devono essere obbligati, pena, al limite, il carcere. Lo scopo è quello di sottrarre i poveri all’ozio e di inviarli al lavoro, quando l’età o la salute non lo impediscano. I medici in particolare dovranno garantire che i mendicanti non usino inganni. Tra i mendicanti validi, quelli stranieri devono essere rimandati al loro paese, con cibo sufficiente per il viaggio. Se però provengono da zone di guerra possono essere trattenuti là dove si trovano… Ci metterebbe la firma anche l’arcigno prefetto Piantedosi.

Vives è spagnolo, ma ha studiato alla Sorbona a Parigi, e vive nei Paesi bassi, liberi e progressisti rispetto alla Spagna dell’Inquisizione. La sua riforma dell’assistenza ricalca quella messa in opera dalla Municipalità a Ypres e a Bruges. Le manifatture sono un toccasana, redimono chi è abituato a sperperare in vizi i propri averi. Gli operai dei lanifici di Armentières e i lavoratori della seta di Bruges si lamentano della scarsità di manodopera. Il fatto è che chi, pur essendo fisicamente valido, resta fisso in un ospedale sfrutta automaticamente gli altri. I vecchi privilegi vanno tolti a tutti: non sia permesso a nessuno di godere dei beni accumulati a fini caritativi. Una volta ripuliti gli ospedali da tali sanguisughe, si potrà passare al risanamento: se ne analizzino le rendite annuali, si conti il denaro in cassa e si vendano i beni superflui. Dopo di che gli ospedali potranno ospitare i veri malati. Vives ricorda che nella sua Spagna, parlando con i più anziani, aveva sentito dire che molti si erano arricchiti personalmente proprio con le ricchezze degli ospedali, mantenendo se stessi e deprivando i poveri, magari trattenendo a lungo il denaro per un investimento, mentre nel frattempo il povero moriva di fame. Pare di sentire Francesco che rimprovera il cardinale Becciu.

Il contrattacco viene in forma di difese appassionate della libertà di mendicare. Un esponente colto e preparato di uno dei più prestigiosi tra gli ordini mendicanti, il domenicano Domingo de Soto, che sarà direttamente impiegato al Concilio di Trento, denuncia l’intento persecutorio dei nuovi regolamenti assistenziali. Avverte che si rischierebbe di fare brutta figura in Europa a trattare i poveracci come vorrebbero fare i ricchi fiamminghi. Non è opportuno trattare come bestie i mendicanti, i migranti, o i pellegrini. Un paese che lo facesse rischia di darsi politicamente la zappa sui piedi: “Potremmo offrire materia di scandalo agli altri stati se costringessimo i pellegrini [a Santiago de Compostela] a procedere come animali, entro sentieri prestabiliti e delimitati da ogni parte”. Si chiede come mai tanto rigore contro i poveri ma non altrettanto contro i ricchi. Lamenta che “contro questi non si istituiscono altrettanti inquisitori e altrettanti gendarmi”. Osserva che: “Corrotti, criminali, le pietre dello scandalo, gente indegna del pane che mangia esiste in ogni ordine e grado: tra gli artigiani, tra gli avvocati, tra gli scrivani, tra i chierici e i religiosi, tra i magnati e i prelati”. C’è chi ruba molto più dei poveri che mangiano a ufo: “quelli che con contratti e negozi poco chiari trasformano in proprie le cose altrui: ce ne sono molti, e si consideri che uno solo di loro racimola un patrimonio più grande – iniquamente guadagnato – di tutto quello che i mendicanti robusti dell’intero reame possano mai mettere insieme”. L’uomo dell’Inquisizione e della Controriforma spiazza tutti collocandosi più a sinistra dell’umanista liberale. L’insinuazione punta dritto ai ricchi borghesi di Bruges, cioè ai presunti committenti di Vives. Il quale Vives ha un punto ancor più debole. E’ un ebreo convertito. E come tale è automaticamente sospetto di eresia. Si sarebbe guardato bene dal tornare in Spagna. 

Domingo de Soto difende la libertà di mendicare: l’uomo dell’Inquisizione e della Controriforma si colloca più a sinistra dell’umanista liberale

Vives si distingue da quelli che odiano i poveri per partito preso. E anche da quelli che dicono di essere amici dei poveri, li vogliono accudire per partito preso. Per mettersi a posto la coscienza, per salvarsi l’anima, o salvarla, per conclamata bontà o per peloso interesse. Lui è uno studioso, un tecnico si direbbe oggi, prestato alla politica. Lo studio sull’assistenza ai poveri gli era stato commissionato dalla municipalità di Bruges. Fu stampato a spese pubbliche. Non è frequente che i politici commissionino studi scientifici perché gli diano idee sul da farsi. Di solito li commissionano perché hanno bisogno di giustificare decisioni già prese, perché gli serve una legittimazione, o perché hanno bisogno di una scusa per non prendere decisioni, rinviarle. C’erano probabilmente discussioni molto accese. E’ possibile che si rivolgessero ad uno studioso, non a un esperto in materia ma ad un umanista colto e stimato, semplicemente per avere una rassegna dei problemi e delle posizioni, in vista di una riforma. La riforma non ci fu. Bruges non adottò mai i consigli di Vives. Passarono trent’anni prima che venisse adottato un sistema di assistenza più o meno simile a quello di Ypres. Un’altra ipotesi avanzata dagli studiosi è che il Senato di Bruges volesse semplicemente degli argomenti per estendere i propri poteri e il proprio ruolo. Nell’edizione riveduta del De Subventione pauperum, pubblicata a Parigi diversi anni dopo, c’è una piccola ma significativa aggiunta al Libro II, capitolo 7: “Soprattutto bisogna evitare le rivalità politiche, la piaga crudele di tutte le città”.