riletture
Non c'è romanzo che mostri l'equivoco dell'identità come la “Recherche”
La festa e la morte. È il mondo di Marcel Proust, tra letteratura e vita mondana. Rileggere l'universo di Swan signofica riscoprire le identità precarie. Un romanzo dinamico dove le idiosincrasie sono la sostanza
Com’è giusto, per il centenario della morte sono usciti molti libri su Marcel Proust. Alcuni li tengo sulla scrivania, ma non li ho ancora nemmeno sfogliati. Ho preferito cominciare le mie celebrazioni con una parziale rilettura della “Recherche”. Provo a riassumerne qui i risultati, senza illudermi sulla loro originalità, ma sperando che possano comunque essere utili a qualche neofita. Ci sono due aspetti, credo, che più di altri rendono il proustiano “romanzo di romanzi” un esperimento unico nella letteratura del ’900. Il primo aspetto: mentre gli ultimi grandi esecutori testamentari della modernità descrivono l’impossibilità di dare un senso al panorama sconfinato, disomogeneo e in apparenza futile della storia contemporanea, Proust è l’unico che restituisce una forma organica ai frammenti dell’esperienza pubblica e privata, recuperandone in un disegno coerente tutte le stratificazioni e connessioni: nella “Recherche” ogni particolare si rivela infatti a poco a poco immerso in una struttura che gli imprime e ne riceve un significato.
Il secondo aspetto è però forse ancora più importante. Lo descrive bene lo stesso autore quando osserva che “solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona”. Nell’universo borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi soprannaturali, avere un’identità precaria o equivoca è fisiologico; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il sintomo di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. Perciò l’ambiguità è senza fine.
La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione o di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che s’intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri della “Recherche”: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir… e ovviamente il narratore. Anche se il narratore non è nemmeno un personaggio che cambia, ma piuttosto un puro conduttore, uno specchio di sintomi che mai si compone in unità. L’unità è l’opera, sorta alla fine dalla scoperta del senso della letteratura: che è l’opposto della vita mondana, ossia è l’unica vita vera.
Ma esistere soltanto nella scrittura ha un prezzo terribile: significa accelerare la consunzione e la morte. Per cogliere poeticamente le leggi che governano la realtà occorre infatti sottrarsi alla maschera dell’abitudine che la copre, cioè a quella convenzione che rende sopportabile l’esistenza; una convenzione senza la quale il mondo diventa mostruoso, e noi ne subiamo inermi la ferocia. Proust accetta il prezzo: ecco perché non è affatto un delicato delibatore di finezze, ma come ha detto Franco Fortini un “lottatore”. Il suo premio sta nella capacità di fissare sulla pagina quelle percezioni intermittenti, quelle memorie sensoriali e involontarie (sprigionate dal morso a una madeleine, o dal passo su un selciato sconnesso) che lo elevano a un’estasi in cui presente e passato divengono entrambi attuali, e in cui quindi la morte è abolita.
È un premio che si conquista rinunciando alla posizione ottocentesca del demiurgo, abbandonando le illusioni della volontà, e consegnandosi a una passività ricettiva che l’intelligenza deve registrare ma che non può sostituire. Forse proprio perché il narratore e l’autore della “Recherche” hanno questo privilegio, mentre rileggevo a pezzi il capolavoro proustiano mi sono però commosso soprattutto davanti alle scene che rappresentano invece la fragilità dei personaggi privi di redenzione poetica. Sono creature abbandonate a un mondo di desideri mimetici che sfocia fatalmente nel sadomaso, nella degradazione, in quel surrogato dell’estasi che è l’attaccamento alla propria patologia, o al massimo nella speranza in una provvisoria tregua la quale però non deve mai eliminare il male, dato che fuori resta solo il nulla.
È il mondo di Charles Swann, la cui mancanza di volontà non diventa passività ricettiva, ma rimane una fantasticheria dove s’intrecciano irrealisticamente figure umane e spettri estetici. Questo dandy inconcludente è rispetto al narratore quel che Adamo è rispetto al Cristo risorto; eppure senza di lui non ci sarebbe la resurrezione. Se Marcel ha imparato a lottare con coraggio, è anche grazie alla lezione di stoicismo appresa da chi non aveva altro che la vita mondana: ad esempio dalla nonna, con il suo amore luminoso capace di resistere fino alle soglie dell’agonia; e appunto da Swann, che soltanto in risposta a una domanda della duchessa di Guermantes avvisa sobriamente di essere un malato terminale. Come in molte scene della “Recherche”, l’interlocutrice fa allora finta di non capire: sta per andare a una festa, e mostrare di aver compreso la notizia significherebbe rinunciarvi. Ecco, la festa e la morte: sono questi, mi pare, i due poli tra cui oscilla l’unica cattedrale della letteratura moderna che ricordi Dante.