(foto di Thom Milkovic/ Unsplash) 

Scrivere o smettere di scrivere. Questo è il problema nell'Italia letteraria

Marco Archetti

Il nostro è un paese di esordienti che vogliono fortemente esordire, e poi ci mettono un’intera bibliografia a smettere. Forse aveva ragione Manganelli: segretamente gli scrittori vogliono essere letti da Dio in persona

"Potrebbe essere l’ultimo romanzo che scrivo, non so. Lo penso ogni volta”, ha detto qualche settimana fa Andrea De Carlo all’Ansa a proposito del suo recentissimo “Io, Jack e Dio” (La nave di Teseo) poco prima di impantanarsi in una serie di considerazioni da cognata numerologa assai meno interessanti della dichiarazione in sé, che pullula di significati profondi. Scrivere, non scrivere: l’Italia è un paese di esordienti che vogliono fortemente esordire, e poi ci mettono un’intera bibliografia a smettere. Aveva ragione Calvino quando sentenziava che “il primo libro non bisognerebbe mai averlo scritto”, e non solo perché è quasi sempre un monumento ai difetti scambiato per la prefigurazione dei tuoi pregi, ma perché, una volta che hai cominciato, rimettere il tappo sembra impossibile.

 

Sullo scrivere e sulla rinuncia a scrivere ci ha costruito un mondo Enrique Vila-Matas, principe dell’Ellisse, raccontando scrittori mancati, libri impossibili e pagine inesistenti, mettendo in scena un teatro squisitamente biblioriferito in cui solo i libri e la scrittura stabiliscono le regole e pongono il problema: le lettrici uccidono, gli scrittori si sfiancano a domandarsi se smettere o no, quando farlo, quando iniziare a finire o quando finire di iniziare, ma nel frattempo non è che scrivano granché (Mac, quello del problema, nel romanzo omonimo, è uno che – letteralmente – scrive solo per sapere cosa scriverebbe se scrivesse: trattasi di uno che ha smesso di scrivere ancora prima di cominciare, capolavoro inarrivabile). 

 

Scrivere, non scrivere. Le implicazioni sono morali, duodenali, bancarie. La grande letteratura zittisce lo scrittore, però, ugualmente, lo sfida. “La Montagna incantata” incenerisce la penna di ogni Bartleby, e tuttavia, altrettanto innegabilmente, la sprona. Stendhal derubrica chiunque a balbettatore, ma chi non ha provato a balbettare? L’intelligenza genera stupidi. E, subito, una domanda: come si riesce a essere quello stupido ammirevole che vive benissimo (meglio di te che ti chiedi se smettere) sentendosi svincolato dallo spaventoso palinsesto del genio universale, spensierato lanciatore di sassi mentre nasconde la mano grafomaniaca? Come riuscire a non farsi mai sfiorare dalla certezza di essere capitato su un palco minore della letteratura (il tuo, tra l’altro per sbaglio e di straforo) mentre insisti a fischiettare, stonato, le tue ariacce, al cospetto di geni che hanno regalato al mondo sontuose sinfonie? La bellezza dell’Altro è sempre – come per Rilke – “l’emergenza del tremendo”, ma è possibile non farsi rimpicciolire dalla grandezza altrui, quasi non esistesse? Uno si mette a scrivere, ed ecco che cancella la letteratura mondiale! (Smettere, smettere, smettere: flirtare con l’ipotesi è un modo come un altro per farsi perdonare tutte quelle parole scaraventate sui fogli troppo precipitosamente?).

 

Non c’è modo di domandarsi se scrivere o no, senza tuttavia scriverlo. Ipotesi uno, bandiera bianca: si scriva e basta, e non ci si contorca, stop shottini di antiacido, basta gastriti, accettiamo a braccia aperte la disfatta aporetica, adelante adelante, senza alcun giudizio, continuare imperterriti anche se si sospetta il delirio, la cretineria. Ipotesi due, la via di mezzo: quindi cercarsi referenti, cercare ispirazione. Montaigne un giorno ha preso la parola e ha detto: parlo solo di me, solo per me o quasi – ridimensionatore però prolificissimo, non ci si può aggrappare. “Una macchia di inchiostro cade su un foglio, ed ecco una storia,” si smarcava I.B. Singer, altro grande disinvolto. “Provo per la letteratura l’odio dell’impotenza”, si lamentava il 16 giugno 1856, per lettera, Gustave Flaubert, correggendo le bozze della Bovary e mettendo nei guai tutta una posterità. Hemingway la buttava, come sempre, sul pratico: scrivere è solo mettersi a scrivere (“sii sincero”, aggiungeva – quindi può fare al caso nostro, al massimo uno se la vede con la propria coscienza ma solo se gli va). Henry Roth: era idolatria, sganciò un romanzo perfetto poi adieu, un vero prodigio di equilibrio – non fosse che, mentre faceva il pompiere, in segreto, andava avanti a scrivere.

 

Che fare? Tutti coloro che scrivono hanno i padri e le madri più ingombranti che esistano, e sanno che scrivere è un atto anche spaventoso, forse improprio. Ma nessuno smette davvero, nessuno davvero lo vuole. Hanif Kureishi, per esempio: l’ha detto e poi se l’è rimangiato. “Io credo che queste siano le ultime righe che scrivo, anche se non lo prometto”, confidò alla Stampa Alice Munro nel 2012, e dubitare è comprensibile, non è mai semplice, in ballo ci sono le cose che contano: le ragioni profonde, le forze incalcolabili, la paura della morte, la gratitudine verso questo mondo di carta aerostatica su cui hai viaggiato, i dubbi atroci, i demoni, il disordine che ti minaccia. Avrà ragione Manganelli? “In generale”, diceva, “gli scrittori, segretamente, sono convinti di essere letti da Dio”. Già. Dio in persona. Sennò non si spiega.

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