la recensione
Canto di Natale 1914. Una favola nelle trincee della Grande guerra
La famosa tregua di un giorno nel romanzo di Mattia Signorini. La continua ricerca del simbolo e dell'essenziale, a vole un po' ingenua. Il lettore metta da parte le ostilità e cominci ad ascoltare
Esistono libri che portano in dote la possibilità, per chi legge, di dimenticare il tempo e il luogo cui si appartiene e pure, in verità, il tempo e il luogo in cui i fatti raccontati accadono, quand’anche questi abbiano segnato la Storia. Potremmo forse chiamarli favole, questi libri. Se così è, allora Mattia Signorini ne ha scritta una. Una piccola pace (Feltrinelli, 192 pp., 17 euro) racconta, quando gli eventi stringono a una conclusione, di una tregua dai combattimenti per la notte di Natale del 1914, a Ypres nelle Fiandre, dove inglesi e tedeschi combattono al fronte nella Prima guerra mondiale. Fu l’idea di un ragazzo inglese, fuciliere, fotografo, di nome William Turner come il pittore, che la voce narrante, un soldato tedesco di nuovo di passaggio per quei luoghi con il figlio, ha conosciuto – nel bosco, in fuga, in avanscoperta, imbracciando e abbassando il fucile – perché alle volte un “fucile è solo una circostanza”.
Pare chiaro a tutti quello ch’è chiaro sempre: “che la guerra non avrebbe salvato nessuno” e lì nella trincea stanno per forza e per sventura uomini che erano altri (un professore, un cappellano che – prima – credeva in Dio e ora non lo sa, un ragazzo a cui invece la guerra ha regalato un senso) e che non possono più concedersi altro che il presente.
E William, che ferma con la luce il tempo (a lui invero dobbiamo alcuni dei pochi scatti rimasti della Grande guerra), comprende che, a volte, è necessario ascoltare un imperativo privato, quand’anche il dovere pubblico spinge furioso da un’altra parte: “Se con un semplice secchio non si riesce a svuotare una trincea dal fango, è molto più utile uscire dalla trincea”.
A instradarlo la visione di una giovane ragazza: nei suoi occhi, come nel mare, “vorrebbe tuffarcisi dentro. Lo fa. Sta nuotando, William, è notte e muove le braccia per restare a galla. L’acqua dovrebbe essere gelata, ma non lo è. Anche se è immerso nel Mare del Nord, percepisce il suo corpo asciutto. Solo il viso è bagnato. Mamma, dice”.
Come in una partita a Memory in cui a una tessera ne corrisponde un’altra, Signorini lega personaggi, sentimenti, luoghi e cose a coppie: alla ragazza indecifrabile illuminata dal chiarore di una candela che William incontra per accidente, e simboleggia il futuro, corrisponde la madre di lui, che resta inequivocabilmente nel ricordo; a lui stesso fa da contraltare il soldato tedesco davanti al quale si trova da uomo e non da militare, e che diversamente da lui potrà raccontare il destino dei singoli; alla guerra risponde indietro il mare; al senso di colpa la consapevolezza che c’è un solo tempo e si chiama il presente; ai fucili una macchina fotografica e un pallone.
Signorini scrive un Canto di Natale che attutisce l’incedere del presente e scioglie, in una lingua che sottrae gli orpelli, la complessità del ragionamento, del potere, del progresso, delle quantità. Come se gli fosse stato dato un numero massimo di parole, l’autore ricerca in quello che decide di tenere – persone, figure, attimi – l’essenza e il simbolo, alle volte forse scivolando (c’è persino un topo da compagnia, nelle trincee), ma sempre come suggerendo al lettore di fare i conti con quel che c’è, senza rimpianti. L’importante è capire, prima ancora che accettare. E, a quel punto, narrare. “Cos’ha fatto William Turner dopo che è arrivato in trincea?”. “Ha imparato che non è la paura a renderci deboli”. “E cos’è allora?”. “L’incapacità di comprendere chi abbiamo di fronte”. Signorini invece comprende, ascolta e scrive a bassa voce. Il lettore metta da parte le ostilità, e ascolti.