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i reportage

Simenon, antipatico e stakanovista, ma con l'Humanité in tasca

Siegmund Ginzberg

Storia di quell'altro, il giornalista che inseguiva la cronaca giudiziaria. In giro col giornale della sinistra per farsi perdonare simpatie nazi. Che come Maigret non odiava i delinquenti, ma li inseguiva

Duecento assassini sono a piede libero […] Uomini che hanno ucciso, chi una, chi tre, chi quattro persone, donne, bambine, per denaro o per vizio, qualcuno per gelosia; c’è chi ha fatto a pezzi i cadaveri, chi ha finito la vittima a calci, chi infine ha portato in giro per ore il corpo nel bagagliaio della macchina o lo ha bruciato a fuoco lento! E poi cento o duecento ladri, che non hanno rubato una volta sola ma dieci, e ai quali la prigione non fa più paura…”. Evasi cui stanno dando la caccia? Magari dal Beccaria, il carcere per minorenni di Milano? 

 

No, è l’incipit di un articolo di Georges Simenon, del 1933. Da Dietro le quinte della polizia, il più recente dei volumi in cui Adelphi sta pubblicando anche gli scritti giornalistici di Simenon. Questo è arricchito anche da una strepitosa sezione fotografica. Il racconto è un capolavoro di ironia sul panico montato dai giornali. “Avete mai visto come si diffonde il panico quando, in una cittadina qualsiasi, un vecchio leone fugge da un serraglio, senz’altra idea di andarsi a stendere in un prato di erba vera?”. Il giallo viene subito risolto. Con una confessione: “Non ci sono assassini a piede libero. La notizia è falsa. L’ho inventata per darvi un’idea di cosa rappresenti il fatto, apparentemente banale, di condurre centinaia di uomini prima all’Île de Ré [isola al largo della Bretagna] e poi nella Guyana [l’inferno della Caienna, l’isola di Papillon…]. Vi assicuro che non sono l’unico ad averci pensato. C’è gente che non ha dormito per parecchie notti…”.

 

Simenon non poteva immaginare che un paese intero, forte grande e moderno quanto la Francia, sarebbe stato tenuto per giorni col fiato sospeso per la fuga di sette ragazzi, non sette serial killer. Alcuni subito riacciuffati (uno era andato dalla nonna, era il giorno di Natale, un altro dalla sorella, un altro ancora l’hanno trovato che si era unito a un gruppo di altri giovani che cantavano e ballavano in piazza).

 

Alcuni dei forzati che vengono trasferiti sono notissimi ai lettori dei giornali dell’epoca. Scende dal cellulare, incatenato come gli altri, un prigioniero elegantissimo, “vestito più o meno come il prefetto, che è appena arrivato”. È Pierre Laget, dentista di Bézieres accusato di aver avvelenato con l’arsenico, per ragioni di eredità, la prima e la seconda moglie e la zia, e di aver tentato di fare lo stesso con la sorella. “Non sa cosa lo aspetta!”, sussurra al cronista un sorvegliante. In che senso? E quello: “Con un vestito del genere… Già mi immagino la scena! Pantaloni alla zuava in galera!”. “Tra poco, il dottor Laget verrà chiuso in una cella con quindici o venti altri assassini che non hanno alcun rispetto né per i pantaloni alla zuava né per le camicie fatte su misura”.

 

Quel che il cronista Simenon non poteva sapere al momento in cui scriveva è che Laget si sarebbe poi suicidato in Caienna. Segue Norbert Mouvault, condannato alla ghigliottina per aver strangolato l’amante della moglie (condanna poi commutata all’ergastolo a poche ore dall’esecuzione). E poi Guy Davin, condannato per l’omicidio del suo socio, il gangster americano Richard Wall. “Esile, con un’espressione nervosa, il cappello di feltro ben disegnato e un impermeabile di gabardine”. E il sorvegliante confida al cronista: “Eccone uno che si sistemerà in quattro e quattr’otto”. Perché? “Bello com’è! E il resto…”. Sul ponte del rimorchiatore che lo porterà all’isola di Ré, Davin “scherzava con i compagni, meglio, li faceva ridere con le sue battute. E tutti quei bruti, in visibilio, lo guardavano con affetto. Ma, a volte, lui che ha fatto la bella vita rivolgeva al gruppetto dei giornalisti uno sguardo più penetrante […]. Che cos’era? Spavalderia? Sfida? Cinismo?”.

 

Poi ci sono gli altri. Quelli senza nome. Hanno poco di che ridere, perché “dopotutto stanno lasciando il continente”, anzi “in un certo senso stanno lasciando la vita, proprio come tra poco stanno lasciando gli abiti civili”. Il cronista con loro non ha modo di parlare. Non ne conosce le storie. Annota come sono vestiti: “Ci sono berretti e cappelli flosci di feltro, molti completi logori, camicie sporche e, in faccia, brufoli o foruncoli, difficile dirlo”. E qui ha anche una caduta di stile: “In ogni caso [hanno] qualcosa di malsano, segno probabilmente di chissà quale gravosa ereditarietà, così come gli inquietanti prognatismi, le fronti sfuggenti, le mascelle da antropoide”.

 

Un tantino razzista, anzi un po’ più che un tantino. Ma siamo negli anni 30. Hitler è appena divenuto cancelliere. In Francia e nella vicina Germania si sta teorizzando a livello “scientifico” la “pulizia della razza” da malati mentali, degenerati, ebrei. Erano teorie molto in voga. E non c’è da stupirsi che anche il nostro ci caschi. Abbiamo poco da scagliar pietre noi italiani, che abbiamo avuto l’antropologia criminale di Cesare Lombroso e l’eugenetica razzista del professor Nicola Pende, fiore intellettuale all’occhiello del quindicinale La difesa della razza (il segretario di redazione, dal 1938 in poi fu Giorgio Almirante, sì, l’ora celebrato fondatore del Msi). 

 

Il problema non è che siano stati un po’ fascisti, o tanto fascisti (la disquisizione mi fa venire in mente la battuta sulla ragazza che era incinta, ma appena un pochino). È continuare o meno a richiamarsi a quel che c’era “di buono” e di “onorevole” nel fascismo. Non c’è mai niente di innocente in certe “nostalgie”. Non conosco il presidente del Senato Ignazio La Russa. Mi ricorda un mio compagno alle medie, poi di liceo. Il quale a sua volta mi fa venire in mente Il Federale interpretato da Ugo Tognazzi. I genitori erano molto “nostalgici”. Forse dovrei essergli grato. Furono loro a convincere mio padre a continuare a farmi studiare, anziché mandarmi presto a lavorare e guadagnarmi la vita. Lui mi provocava canticchiando sull’aria della canzone di Celentano: “Con ventiquattromila ebrei, quanto sapone ci farei”. Non diceva sul serio. Gli spaccai la faccia. Più tardi, all’università nel ’68, gli spaccarono la testa a sprangate. Io lo avrei difeso, a costo di prenderle. Siamo rimasti amici. L’ho rivisto di recente. Legge La verità. Vota nella circoscrizione Milano-Rho. Quindi ha votato per La Russa. 

 

Simenon aveva esordito scrivendo per un giornalaccio belga visceralmente anticomunista, e ancora più visceralmente antisemita. Era zelante nel compiacere i piccoli borghesi belgi impoveriti, che odiavano ebrei e comunisti. Anche in Francia avrebbe continuato a scrivere per giornali di destra. Gli anni 30 sono quelli dello scandalo Stavisky, in confronto alla cui risonanza nell’opinione pubblica francese il caso delle mazzette del Qatar e del Marocco agli europarlamentari impallidisce. Alexandre Stavisky era ebreo, immigrato dalla Russia. Aveva pagato direttori di banca, poliziotti, giudici e politici (di sinistra). I giornali di destra ci avevano marciato per anni. Era allora di moda che conducessero inchieste in proprio, e i reporter si sostituissero ai magistrati considerati incapaci o, peggio, corrotti. Il proprietario di Paris Soir, Jean Prouvost, si era rivolto a Simenon, già famosissimo autore dei gialli di Maigret, perché scoprisse cosa ci fosse dietro i traffici di Stavisky. L’inchiesta fece flop. Simenon lasciò perdere. 

 

Era sempre stato pronto a compiacere i datori di lavoro e i potenti del momento. Ma non era cretino. Durante la guerra si era prudentemente ritirato in Vandea. Continuava a lisciare il pelo agli occupanti nazisti. Memorabile la serata di gala che nel 1942 organizzò a Fontenay-le-Comte per la prima mondiale del film tratto dal suo romanzo La Maison des sept jeunes filles. Si era presentato a braccetto con la sua ultima amante, aruffianandosi i nazisti in vista della vendita dei diritti alla Continental, la potente casa cinematografica che faceva capo a Goebbels. Ma, non appena cacciati i nazisti, aveva avuto la faccia tosta di girare con l’Humanitè esibita in tasca, per allontanare il sospetto di collaborazionismo. Non fu sufficiente. Dovette cambiare aria per un po’, prima in Canada, poi in America.

 

Insomma uno stronzo. Un opportunista pronto a saltare sul carro dei vincitori del momento. Che in confronto quelli dei tg Rai sono dei dilettanti. Ma allora, perché lo adoro, attendo ogni volta con ansia il prossimo volume che uscirà da Adelphi, e me lo divoro con goduria? Tra parentesi: ma come fanno a uscire sempre nuovi titoli, quanto scriveva? La risposta l’ha già data, da par suo, Eugenio Montale: “Moltiplicate 55 per 2,30 e avrete, se i miei calcoli sono esatti, centoventisei e rotti; tante sono le ore che Georges Simenon impiega annualmente per scrivere cinque romanzi. Ogni romanzo è compiuto in undici giorni e consta quasi sempre di undici capitoli. Un capitolo al giorno, di circa venti cartelle, scritte a macchina fra le sei e le otto e mezzo del mattino, con poche o punte cancellature. Scaduto l’undicesimo giorno, tre o quattro giorni sono impiegati per la correzione del dattiloscritto. Poi il testo parte e l’autore non rilegge mai più il suo libro”. 

 

Uno stronzo, dicevamo. Per giunta stakanovista. Ma lo salva la sua umanità. Per meglio dire la sua attenzione all’umanità, tutta l’umanità, anche quella che lui sarebbe portato a esecrare. La stessa attenzione all’umanità di un altro antipatico, e grandissimo: Fëdor Dostoevskij. Fa capolino anche nei suoi reportage giornalistici, quando uno meno se lo aspetta. Come il suo commissario Maigret, Simenon non odia i delinquenti. Non li tortura per farli confessare (anche se riesce sempre a farli parlare: le sue tecniche di interrogatorio sono molto particolari, talvolta subdole ma mai violente). Non incita mai al linciaggio. Non incita mai all’odio. Non si sognerebbe nemmeno di prendersela con una categoria di delinquenti per fatto personale, che so, perché l’hanno insultato, o perché gli hanno rapinato il figlio. Fa il suo dovere, che è acciuffarli, non fa crociate ideologiche. 

 

Il cronista segue i condannati fino all’isola di Ré. Assiste, assieme agli altri inviati dei giornali, a fotografi e cineoperatori, all’imbarco dei forzati sul bastimento che li porterà alla Caienna. Li vede passare “senza guardare niente, senza vedere niente, con un cipiglio caparbio e lo sguardo fisso”. Ed ecco che a un tratto si sente un grido. “A lanciare il grido sono state le zingare. Tre donne, circondate da una mezza dozzina di bambini […] Si divincolano. Cercano di passare. ‘Non partire! Non partire!’. Come hanno fatto a riconoscere, tra tanti galeotti tutti vestiti uguali, quello che cercavano? Eppure lo hanno visto. Non si sono sbagliate. Hanno gridato così forte che l’uomo, pallidissimo, si è fermato bloccando tutta la fila. ‘Non partire!’ Le loro grida sono strazianti, come quelle che si levano dai vagoni capovolti dopo una catastrofe ferroviaria. […]. La gente piange. L’ho vista. Tutta la folla piange. E non solo la folla. I funzionari si sono voltati per non guardare. I giornalisti hanno smesso di prendere appunti. ‘Siamo qui… Non partire… Non voglio’. E spingevano avanti i bambini, bambini con gli occhioni spaventati”. Umano il cronista. Umani persino i funzionari di polizia. “È stato un funzionario a chinarsi sullo zingaro e a parlargli sottovoce, perché era così pallido che sembrava stesse per svenire”. Simenon non gli dà dello zingaraccio

 

Non odia, non infierisce. Tutt’al più scrive di “ceffi che è meglio incontrare qui che altrove: qualche vecchio recidivo, ma soprattutto certi giovani elementi che ti guardano negli occhi come se avessero ancora una pistola in mano”. Sa che i giovani delinquenti possono essere i più pericolosi. In un’altra delle sue corrispondenze da cronista giudiziario tratteggia la figura di uno di quei ragazzini che “sognano di diventare dei duri”. “Un teppistello di diciotto anni, appoggiato al bancone […], con una sciarpa vistosa e una coppola in testa”, che guarda i veri duri, i “pezzi da novanta”, “uomini tra i cinquanta e i sessant’anni, silenziosi, che siedono sempre allo stesso tavolo, giocano […] e si scaldano solo quando parlano di politica”. Li guarda “con lo stesso rispetto e la stessa ammirazione che i giovani studenti di medicina riservano ai grandi baroni universitari”. Il ragazzo è in adorazione.

 

Ma non riesce nemmeno ad attirare la loro attenzione. “Può continuare quanto vuole a darsi aria da canaglia, con la cicca incollata al labbro inferiore, o a rivolgersi al cameriere nel gergo della malavita: i signori seduti al tavolo non si sono neanche accorti di lui. […] Il giovanotto possiede un enorme coltello a serramanico, e da stamattina, una pistola automatica. A mezzanotte se ne va in giro per le strade […] emozionato come uno studente alla viglia dell’esame di maturità. Con una mano tasta il coltello nella tasca; con l’altra accarezza il calcio della Browning. La Browning non è carica. Meglio tenerla così, solo per fare paura, o correre il rischio di metterci i proiettili?”.  

 

Un tipo da rinchiudere al Beccaria. Ma “quanti mesi, quanti anni sono necessari per fare di un bambino un adolescente, di un adolescente un uomo? In quale momento si può affermare che abbia avuto luogo questo mutamento? Non esistono, come avviene per gli studi, una solenne proclamazione, una distribuzione di premi, un diploma”. Non è in uno dei reportage. È l’incipit di La prigione, un romanzo molto più tardo, addirittura del 1968, l’anno della gran ribellione giovanile.

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