storie di ripartenza
Siamo nati per ricominciare, non per morire. Aveva ragione Hannah Arendt. Un libro
In "Cento Ripartenze" (Itaca) del giornalista di Avvenire Giorgio Paolucci, ci sono tante storie di carcere, ma ancor di più sono quelle di seconde nascite
Il primo giorno di libertà dopo vent’anni di carcere assomiglia a una seconda nascita. Lo scrive Giorgio Paolucci – giornalista, firma di Avvenire –, e nel suo libro Cento Ripartenze (Itaca) ci sono tante storie di carcere, ma ancor di più sono le storie di seconde nascite. Quelle di decine e decine di persone che l’autore ha incontrato e ha raccontato dalle colonne del suo giornale – rigorosamente in non più di 1.300 battute, alla verità basta l’essenziale – per testimoniare come la malattia, il dolore, il fallimento, gli errori o qualsiasi fatica sappia mandare l’uomo al tappeto, ma spesso può esserci qualcosa che gli permette di rialzarsi. “Gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per ricominciare”: Paolucci ha fatto sue le parole di Hannah Arendt, per usarle come lente per guardare le esistenze di queste persone.
Molte sono vite “da porta accanto”, di un dolore che non sempre si riesce a cogliere nella frenesia dei giorni nostri. Come quella di Nicole, ragazza che soffre per anni di disturbo borderline di personalità, tocca con mano bulimia e autolesionismo, ma un percorso di comunità le permette di guardare le sue ferite e perdonarsi, tanto da scegliere poi di fare proprio l’educatrice, “per sé e per quelle che hanno vissuto lo stesso travaglio, perché imparino a voler bene alla loro fragilità”.
Oppure Alfonso, schiacciato dal “tarlo” del gioco, che gli è costato lavoro, soldi, famiglia: dopo essersi tagliato le vene, l’incontro con i volontari dell’associazione San Giuseppe Imprenditore, con cui avvia un percorso che lo porta a guarire dalla ludopatia: “Ho conosciuto l’inferno, ma Dio mi ha fatto incontrare gli angeli custodi”. O, ancora, Vittorio, che si reputa perdente e la scuola la evita, non vorrebbe presentarsi all’esame di recupero di matematica e spagnolo, ma viene salvato dalla rete creata da genitori e insegnanti: “L’hanno convinto a presentarsi a scuola per sostenere le prove e vedere che c’è chi ha fiducia nelle sue potenzialità. E che la vita è un’avventura da affrontare, non un’insidia dalla quale proteggersi”.
Ci sono “ripartenze” – non poche – di ex detenuti, perché serve un grande amore per non rimanere incollati alla propria colpa (“L’uomo non è il suo errore”, diceva don Benzi). Thiago è stato per vent’anni dietro le sbarre in Brasile, sua mamma pregava per lui e andava a trovarlo, ogni settimana, anche se lui non voleva. All’uscita è corso a riabbracciarla: “Non mi ha mai abbandonato, anche quando io la rifiutavo. E’ per il suo amore che ho deciso di cambiare vita”. Anche nella vicenda di Paolo c’entra la madre: fu lei – con un atto d’amore rischioso e straziante – a chiamare i carabinieri e a denunciarlo per spaccio, distrutta nel vedere suo figlio buttare via la vita, che poi però è riuscito a ricostruire in una comunità. Mattia, invece, dietro le sbarre ha semplicemente deciso di iscriversi all’università e pensare al suo “dopo”.
Il viaggio di Paolucci è un percorso – anche personale – che dalla crisi porta alla rinascita, spesso grazie all’incontro con qualcuno. “In ognuna di queste Polaroid, citata o meno, si scorge sempre una presenza – scrive Daniele Mencarelli nella prefazione. La presenza della dismisura. Della mancanza di cui a un certo punto ci sentiamo pieni, per parafrasare Mario Luzi. Dio non si lascia prendere, ma in queste ripartenze esiste un fatto, un dato incontrovertibile. Nella vita di ognuno di noi, almeno per un secondo, compare non il volto, ma la mano che ci prende e ci mette su una via fatta di salvezza”.