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Il mondo domestico di Svevo Bandini, il primo protagonista di John Fante

Marco Archetti

Quella dello scrittore emigrato è una letteratura che riporta al ritorno a casa. Quella dei doveri, della fame e delle cucine. Fuori, invece, il freddo contro cui si combatte, consapevoli che arriverà primavera

"Ho paura, non sopporto l’idea di vedermi sotto la luce della mia prima opera”. Potrebbe averlo scritto chiunque, invece l’ha scritto John Fante mentre prefazionava se stesso e reintroduceva nel mondo letterario “Aspetta primavera, Bandini”, splendida opera prima che otteneva una seconda occasione a distanza di quarantacinque anni. Ma attenzione: prima a esser stata pubblicata, in realtà seconda a essere stata scritta. La prima davvero fu “La strada per Los Angeles”, che conoscerà il buio cinquantennale dei cassetti, per vedere la luce solo due anni dopo questa ristampa della prima edita – e intanto lo scrittore era già morto. 

 

Diciamolo subito: la biografia di John Fante è decisamente meno dolorosa della sorte toccata ai suoi romanzi, e spesso si è confuso l’una con gli altri. Se è pur vero che per Fante la scrittura cinematografica era nient’altro che freddo esercizio tecnico, altrettanto vero è che con essa ci mantenne, e bene, una famiglia numerosa, famiglia di cui raccontò parte delle vicissitudini – l’arrivo del primogenito – in “Full of life”, unico vero successo letterario dello scrittore in vita.

 

Ma torniamo a noi, cioè a quel primo romanzo secondo, a quarant’anni dalla sua ristampa. Perché è angolare. E comincia così: “Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini”. Da manuale. Un inizio perfetto. Un colpo di scalpello. Così si fa, se si ha la penna in mano. È giovedì, un 5 dicembre, siamo a Rocklin, Colorado, e Svevo Bandini entra sacramentando nelle nostre vite – impareggiabile uomo di fatica, bugiardo epocale, violento e imprevedibile, sarà capostipite di una famiglia e di una saga che farà la storia. In questa prima scena lo incontriamo, appena uscito dall’Imperial Poolhall dove ha perso 10 dollari a poker, mentre rientra a casa deluso, bestemmiante, atteso da una moglie rosariomunita e dai figli August, Federico e lui, Arturo, il nostro ragazzo sensibile, turbato dal purgatorio più che dall’inferno (in cui è certissimo di non finire), che ha divelto i pattini della slitta.

 

E ovviamente è quasi Natale. E i soldi per tre regali non ci sono. E la casa in cui i Bandini vivono – una casa di proprietà, sì, ma di Helmer, il banchiere con la scriminatura e le mani morbide – a ogni scricchiolio sembra deriderli, deridere la loro sconcia precarietà. In due pagine, già tutto John Fante: gli interni (notte e giorno), le umiliazioni, le grandi ripulse, le piccole gioie, e la bisca che è la vita, questa scommessa continua su quel che sarà – ma non sarà mai quel che ci si aspettava. E come chiarendo a posteriori e a se stesso le ragioni di un mondo che in questo romanzo prendeva forma, Fante nel 1983 scriveva: “Ora che sono vecchio non posso non ripensare ad ‘Aspetta primavera, Bandini’ senza smarrirne le tracce nel passato. Certe notti, a letto, una frase, un paragrafo o un personaggio di questa prima opera mi ipnotizza e mi ritrovo a ricucirne le frasi ricavando il ricordo melodioso di una vecchia camera da letto nel Colorado, o di mia madre e mio padre…”.

 

Poi chiudeva quella che è, forse, una delle prefazioni più belle della letteratura universale, con queste parole: “Di una cosa però sono sicuro: tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si trovano in questa mia prima opera. Di me non c’è più niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina”.

 

Perfetta. Perché il mondo di Fante è questo: sempre un mondo domestico. Chi va (anche per correr dietro a un’altra, come succede a Svevo) alla fine torna, perché sì, si deve tornare sempre, dove vuoi mai andare? Ci sono i doveri – quella di Fante è una letteratura dei doveri, l’unico mondo possibile per chi è emigrato, figlio di emigrati. E poi la fame: la fame famelica, la fame vera, la fame dei figli e del conto del salumiere che diventa astronomico da quando non lo paghi più perché – oh, Svevo, cosa ti è preso? – sei fuggito con un’altra a pochi giorni da Natale.

 

“Quando il debito col signor Craik arrivava a cento dollari, gliene pagava cinquanta; se gliene doveva duecento, gliene pagava settacinque, se li aveva. Era così che pagava i conti Svevo Bandini”. E intanto tua moglie, improvvisamente sola, passeggia per casa, “in attesa dell’ispirazione necessaria ad affrontare il salumiere”. E poi la fame di esistere, di vendicarsi della povertà, delle umiliazioni di un Dio che ti vuol male. E la cucina, le cucine: quante. Le cucine in cui ti senti te stesso, o meglio, in cui sei condannato a essere te stesso, e da cui ti alzi per andare là fuori, dove il freddo è duro più della battaglia, cercando di tirare avanti nonostante le sassaiole che la vita ti scatena contro. Ma Svevo Bandini resiste. E sa che presto arriverà primavera. Gliel’ha detto un piccolo fiocco di neve, sfiorando il dorso della sua mano nella notte più difficile e bella della sua vita – quel fiocco a forma di stella che Arturo, tutto suo padre, non dimenticherà mai.

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