A passeggio con Agnelli. Vita e mondo condiviso nel libro di Jas Gawronski

Michele Masneri

A Torino con l’Avvocato, e poi New York e Mosca. A vent’anni dalla morte spunta il memoir segreto di Gianni Agnelli “scrittore”

Jas Gawronski sta cambiando casa. Dev’essere il suo destino di nomade di lusso, perché a quasi ottantasette anni questo signore che ha attraversato tanti mondi ora guarda sereno dalla sua terrazza sul mausoleo di Augusto e si chiede cosa gli riservi la nuova avventura. Musica classica di sottofondo, le foto dei grandi che ha conosciuto alle pareti, mezzo guardaroba aperto in salotto. Spiccano camicie Brooks Brothers, e una cravatta nera di maglia col ricamo “Fiat”. Reperti di un’epoca passata e gloriosa.

 

Sottotitoli per i millennial: Gawronski è stato giornalista televisivo, corrispondente, senatore ed eurodeputato, per poco portavoce di Berlusconi, ma soprattutto un nomade e un diplomatico nell’impero Agnelli, quando questo rappresentava quella che Stefan Zweig chiamava l’età d’oro della sicurezza, quella in cui “ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, che cos’era permesso e che cos’era proibito”.  Per noi cresciuti negli anni Ottanta, anche sex symbol. In copertina di Capital novembre 1987 :“L’uomo è il suo stile”. A un certo punto ho avuto una fidanzata che si chiamava Jascha, perché il padre era grande fan di Gawronski.

 

Adesso Gawronski ha raccolto molti dei suoi scritti, aggiornati e ampliati, in un libro edito da Aragno, “Da Giovanni Paolo II a Giovanni Agnelli. Dialoghi del ‘900”. Bisognerebbe cominciare dalla A di Agnelli. Vent’anni fa, il 24 gennaio 2003, moriva infatti l’Avvocato, e qui Gawronski mi mette davanti un manoscritto, non su Agnelli ma di Agnelli. C’è Gianni che scrive delle estati al Forte dei Marmi, del momento in cui si rende conto che il padre è rimasto ucciso nel famoso incidente con l’idrovolante. Del fascismo. Di Napoli. Fa impressione vedere la parola “I”, “io”, dell’Avvocato. Il libro, che sarebbe stato un sicuro bestseller, è scritto in inglese, sono le memorie dell’Avvocato, che nessuno ha mai letto e nessuno mai leggerà. A un certo punto, dice Gawronski, ad Agnelli venne infatti lo sfizio di scrivere lui un libro, su di sé. “Chiamò allora un giovane giornalista che gli presentai io, Roger Cohen, che era corrispondente da Roma del New York Times, e cominciarono a fare delle lunghe conversazioni”.

 

L’idea di fare un libro colpisce particolarmente perché l’Avvocato – dice Gawronski – era refrattario a ogni forma di scrittura; era un essere completamente orale, in un paese di grafomani, un uomo che non ha lasciato niente di scritto, un appunto, una lettera, tantomeno un diario. “Odiava scrivere, a mano o ancor meno al computer, che non ha mai imparato a usare”. “Forse a un certo punto cambiò idea,  perché quel giornalista americano gli era molto simpatico, forse perché lo divertiva l’idea”. Il risultato è questo testo, che comincia a crescere. Capitoli su capitoli. E poi però a un certo punto si ferma. L’Avvocato decide infatti di lasciar perdere, che non è roba per lui. Torna il leggendario riserbo. La storia del libro finisce lì. L’agnellismo del resto è da sempre materia misterica: tra film che devono uscire e non escono mai (l’Avvocato stoppò la trasposizione cinematografica di “Vestivamo alla marinara”, della sorella Suni, già sceneggiata per Bolognini) non va meglio ai libri: Gawronski mi fa vedere anche un altro testo, un file di settecento pagine scritto da Giordano Bruno Guerri e dalla giornalista tedesca dell’Economist Vendeline von Bredow, che è lì da anni e probabilmente non vedrà mai la luce. 


Ma torniamo ai libri che esistono: nel suo, di libro, Gawronski scrive che Agnelli in qualche modo aveva previsto le beghe ereditarie devastanti sorte dopo la sua morte. “Sì, e forse avrebbe potuto fare qualcosa di più per sistemare le cose”, dice Gawronski. Sta dicendo che Margherita ha ragione? “Dal punto di vista legale non c’è dubbio che ha ragione, dal punto di vista dello stile direi che avrebbe potuto evitare di infangare la memoria di una persona e di una famiglia, anche perché, diciamo, non è che abbia problemi di sussistenza”. Le pagine del libro di Gawronski su Agnelli sono molto belle soprattutto quando  descrivono le passeggiate a Torino con l’Avvocato. Che da una parte si lamenta di non poter uscire di casa per la gran notorietà. Dall’altra, se non lo riconoscono si lamenta ancora di più. In questi viaggi nella sua città l’Avvocato sembra un po’ un fantasma, non riconosce le vie, perché ne sa i nomi vecchi d’anteguerra, che però sono cambiati tutti. E ancora c’è Agnelli che medita sulla morte, che vorrebbe tanto morire in mare, magari in un incidente di barca. Ma c’è anche una vacanza con Truman Capote a Maiorca negli anni Sessanta. “Capote prima dice che viene da solo. Poi con un fidanzato. Chiede una camera matrimoniale, donna Marella storce il naso. Alla fine gliene danno due. Lui si presenta con questo amico che è un idraulico, del Texas mi pare. Una persona molto, molto semplice. Io cerco di far conversazione: gli chiedo se è la prima volta che viene in Europa. Lui: no, no, sono stato a Città del Messico”.


I racconti di Gawronski evocano soprattutto un giornalismo che non esiste più, quando un giovane certo ben inserito può offrirsi di collaborare da un paese straniero, parte e va, “però oggi lo fanno i giovani che partono col loro iPhone per l’Ucraina, non so”, dice, ma forse non ci crede manco lui, e tra TikTok e l’Herald Tribune c’è una certa differenza. Ogni posto è una scoperta, c’è l’assassinio di Kennedy visto in diretta tv insieme a Enzo Biagi in un diner in Wisconsin (all’inizio Gawronski fa il “fixer” per i grandi giornalisti italiani all’estero, procura i biglietti, guida l’auto, fissa gli alberghi, anche perché magari i grandi come Biagi non sanno l’inglese).  C’è Fidel Castro intervistato due volte “sempre per tre ore, da mezzanotte alle tre del mattino, e che alla domanda che gli faccio, del perché a guerra finita continui a vestirsi in mimetica risponde: perché è comoda, non devo cambiarmi”, e poi: “ma al Papa glielo chiedi, perché si veste sempre di bianco?”.

 

Fidel appare anche una sera a cena a casa Agnelli al Quirinale, ma arriva con un collaboratore e siccome a quel punto sono in 13, Gawronski viene invitato a passare dopocena, mentre sotto, in un altro grande appartamento antifascista, Andrea Carandini chiama l’ascensore e dentro c’è Castro. C’è la famosa intervista-non intervista a Wojtyla, che invita a cena con una gran conversazione a briglia sciolta, e  il papa che parla la sua lingua, e la mattina dopo il giornalista mentre batte a macchina quello che pensa essere lo scoop della vita, riceve una telefonata del segretario del Papa, monsignor Dziwisz, che parla pure lui la sua lingua ma gli dice che il Papa preferirebbe che l’intervista un po’ “hard” non uscisse (uscirà più avanti, sarà un celebre scoop). C’è il principe polacco Radziwill che, invece d’essere contento che un suo figlio sposi Lee Bouvier, sorella di Jackie Kennedy, non si presenta al matrimonio perché gli sembra una parentela un po’ cafona. C’è il pavimento di un certo hotel di Baghdad dove è dipinto un ritratto di George W. Bush che è obbligatorio calpestare. C’è il vecchio pilota dello scià di Persia che racconta come ai tempi d’oro sul Falcon imperiale venivano regolarmente imbarcati plotoni di ragazze a cui  sono donati i gioielli più clamorosi, ma poi al ritorno a Parigi i doganieri sono istruiti di spogliarle di tutto e di rispedire a casa il malloppo, che verrà riutilizzato. C’è Romiti e la sua spregiudicatezza che diverte l’Avvocato. In una trattativa qualcuno dice al roccioso ad della Fiat: “Ci sono tre modi per affrontare questo negoziato. Il primo è ammettere la verità...”. Subito Romiti lo interrompe: “Non diciamo sciocchezze”.


Collezionista di storie e personaggi, che hanno la meglio sui fatti, storie in cui nessuno è davvero cattivo, come se una generale patina di bonomia ricoprisse tutto e sollevasse tutti dai loro peccati, il cattolico Gawronski dice che “mi ha guidato più il caso che non l’ambizione”, come nel 1979 quando, a lui corrispondente da Mosca, Susanna Agnelli lo prega di candidarsi nel partito di casa, il Pri, e lui risulta il primo dei non eletti, ma poi lei rinuncerà, e lui tutto contento perché un po’ stufo della Russia di Breznev finisce a Strasburgo, per ben cinque legislature. E lì, invece che imbolsirsi, ricomincia a girare. “I paesi con lo ‘Stan’ li ho girati tutti da eurodeputato: Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan…”. Mosca, sede che terrorizza i corrispondenti, lui la prende con filosofia. Basta non diventare paranoici. Sei spiato? Essì, sei spiato. Ma devi vivere come se non lo fossi. Devi anche rinunciare alle lusinghe dell’occidente: niente bei film al cinema, niente librerie, niente negozi eleganti. Ma è il posto ideale per guardarsi intorno, fare nuove amicizie. “Quelle nate a Mosca durano tutta la vita”.

 

Descrizione d’epoca: “In una lontana primavera del 1957 mi si presentò al Café Mozart di Vienna un giovane aitante, dallo sguardo irrequieto, dalle tempie lambite da una prematura calvizie che prolungava e chiudeva perfettamente la forma ovale di un volto molto bello, aperto e sorridente. Sembrava aver inghiottito da poco, in un sorso unico e secco, una spada e un bicchiere di vodka: la rigidità del portamento aristocratico e quasi militare appariva come incrinata da una sorta di controllata febbre interiore, di ansiosa disponibilità conradiana all’avventura e al rischio”. Ecco il ritratto del giovane Gawronski che ne fa Enzo Bettiza. Per Demetrio Volcic, più prosaicamente, “Jas Gawronsky sa stare a tavola in cinque lingue”.


E’ stato anche portavoce di Berlusconi premier, al primo mandato, nel 1994. Nel libro scrive che il Cav. era “totalmente trasparente”. “Faceva tutto davanti a te. Assistevi a quel gioco strepitoso che è la politica, a tutti i suoi incontri, a tutte le sue telefonate, tranne quelle con due persone”. Chi erano? “Una era Maurizio Costanzo, e non ho mai capito perché. L’altra preferisco non dirla”. Di Berlusconi dà un giudizio positivo, “soprattutto nel primo periodo, e ancora prima in quello delle tv private, dove è stato veramente un pioniere, mentre nessuno lo prendeva sul serio in Italia”. Che pensa invece dell’ultima fase che stiamo vivendo del Cav.? “Per come sono fatto io, man mano che l’età avanza, preferisco star lontano dal video, per non generare paragoni estetici col tempo che passa”. Il Cav. non demorde, invece. E poi c’è la questione dirimente dei capelli. Siete due pianeti diversi. Il Cav. un Sisifo della dannazione pilifera. Lei arrendendosi invece ha vinto. E’ diventato lo Yul Brinner del giornalismo italiano. Perché, diciamocelo, essere ganzi coi capelli siam capaci tutti. Senza, solo pochissimi. “Ah! I capelli, io glielo dicevo sempre a Berlusconi. Lascia perdere le tinture, che si vede. E poi stinge. Ma lui niente. E non credo lo faccia per vanità. Solo, sosteneva che in televisione non solo non si vede, ma ringiovanisce. Era sempre pronto ad andare in tv. Berlusconi è la tv, in qualche modo”. 

Nella breve permanenza a palazzo Chigi, Agnelli la rimproverava perché riceveva lì gli amici. “Mi rimproverò una volta, sì, perché invitai una coppia di amici in ufficio. Aveva questo rispetto enorme per le istituzioni. Non si ricevono gli amici nella sede del governo, diceva”. Gli amici si vedevano invece al famoso poker. Un tavolo che è andato avanti per anni nella leggenda, con giocatori fissi e illustri a Roma. Giovanni Malagò ha detto che lei era “un killer”. Loro giocavano per divertirsi, lei non mangiava, non beveva, era solo concentrato a vincere. “A parte che Malagò non era un habitué, il tavolo era composto piuttosto da Gigi Melega, Carlo Caracciolo, Claudio Rinaldi. Caracciolo tra l’altro alla fine siamo giunti alla conclusione che probabilmente barava. Comunque, certo che ero un killer. Io mica vado lì per divertirmi, io vado lì per vincere”. E si mette a parlare dei giochi di carte, “Agnelli per esempio giocava a écarté, che è un gioco molto intellettuale, di intelligenza, ma non spesso. Anche perché era difficile trovare degli avversari che giocassero contro di lui”. Quando parla dei giochi Gawronski si fa improvvisamente serio. Come se il gioco fosse l’unica cosa seria sulla terra. Come se avesse realizzato la summa della signorilità, il totem della sprezzatura: parlare gravemente delle sciocchezze e con leggerezza delle cose serie. “Ma non è che abbia preso con leggerezza le cose serie”, protesta flebilmente. Be’, però per esempio non è andato mai fino in fondo. Alla tv, o sui giornali o nella politica.  Ha un po’ cincischiato. “Mi piace cambiare. Credo che dopo un po’, cambiare città o anche lavoro sia sempre positivo”.

 

Avrebbe potuto fare il diplomatico – del diplomatico Gawronski ha l’estrema cortesia, l’incapacità di dire cose negative o cattive su persone viventi, il ritrarsi da giudizi esagerati, il tenere la conversazione sempre in una zona controllata, l’esprimere sentimenti e opinioni più con certe espressioni del viso, con delle pause, oppure ripetendo la domanda che l’interlocutore gli pone. Di chiederti cose minime su di te come se fossero della massima importanza (“che motorino ha? Ah, fantastico!”). Poi però ogni tanto gli scappa la battuta da giornalista come se la verità si facesse largo tra tanta buona educazione poliglotta. “Ma no. Oggi il diplomatico è un mestiere diventato inutile”, dice. Però aveva un nonno e un padre ambasciatori. Il nonno, Alfredo Frassati, fondatore della Stampa, politico antifascista, fu mandato a Berlino ma dette le dimissioni quando Mussolini prese il potere. Suo padre Jan invece era un diplomatico di carriera che conobbe quella che sarebbe diventata tua madre mentre era di stanza a Roma. I suoi girovagarono per l’Europa che collassava tra legazioni in Turchia, in Germania, a Vienna.  La mamma Luciana Frassati Gawronska, poetessa, socialite, gran personaggio, era nella lista nera dei sospettati di tradimento e spionaggio, e nel febbraio 1944 un agente della polizia tedesca vaper arrestarla a Roma quando lei risponde: “Non vede che sto male?”. “Son qui col mio medico”, dice, indicando un signore in camice bianco che in realtà è un massaggiatore. Poi fugge nella residenza dell’ambasciatore polacco in Vaticano.  Ma  prima, salotti letterari a Vienna con Alma Mahler, Franz Werfel, Oskar Kokoschka, Arturo Toscanini. E lo Stefan Zweig della nostalgia dell’impero. 


A proposito di impero, ma lei in quanti paesi è stato? “Centoventi”, risponde immediato. Ne ha visitati più della regina Elisabetta. L’ha mai conosciuta? “No, lei no. Non come Mario, lui sì che la conosceva bene”. Mario è Mario d’Urso, dandy napoletan-romano che ai tempi agnelleschi si diceva in competizione con Gawronski tanto da chiamare il suo cane Jas. “Lui a un certo punto era quasi fidanzato con la principessa Margaret. Un mostro, lei”. Ma come un mostro!  “Be’ sì, bruttissima”. Sorvola, arriccia la bocca. Stava sempre a Roma, Margaret, dico io. “Sempre a Roma, sì. Per vedere Mario. Mario e il Colosseo”, ride sommessamente Gawronski switchando per un attimo da diplomatico imperiale a giornalista romano.   

 

Se avesse un’altra possibilità, di tornare a fare il corrispondente, andare in un altro paese, un’altra città, dove andrebbe? “A New York, sicuramente”. A proposito, ma perché in Italia c’è questo antiamericanismo strisciante, che negli ultimi anni è rispuntato fuori di brutto? “Perché gli italiani hanno un complesso di inferiorità. Siccome tutte le cose belle, le cose interessanti, le novità, son sempre nate in America, e qui arrivano da sempre in ritardo. Siccome tutti fino a cinque-sei anni fa avremmo voluto vivere in America, essere americani, allora ecco che adesso che l’America è un po’ in crisi esplode questo sentimento”. Sentimento che non alberga di certo in questa casa, dove un tempo sventolava pure una bandiera a stelle e strisce. “Sì, fu durante la guerra del Golfo, deve sapere che qui sotto c’era la sede dei Comunisti italiani di Armando Cossutta. e avevano messo una bandiera della pace. Io allora ho comprato un’enorme bandiera americana, la più grande che c’era, gli copriva anche tutto il balcone”.   


Lotta di classe a piazza Augusto imperatore. A proposito, suo nonno antifascista era stato anche direttore e proprietario della Stampa, che Mussolini gli strappò per consegnarla al senatore Agnelli, nonno di Gianni. Ma non c’era imbarazzo in Agnelli nipote riguardo a questa faccenda? “Sarebbe stato difficile resistere alla proposta del capo del governo di allora”, risponde Gawronski tornato diplomatico. Il senatore avrebbe potuto non accettare, però.  “Sarebbe servito un enorme altruismo, diciamo”. Che non ci fu. “No, non ci fu”. Agnelli nipote, che non aveva alcun senso del denaro, invece lo prendeva in giro il fondatore Frassati, per la sua famosa tirchieria. “Ma almeno lui non s’era mai fatto fotografare in camicia nera, gli rispondevo io”.


Mi sorge un dubbio, alla fine. Ma non è che Agnelli si sia messo a scrivere la sua autobiografia per una sorta di gelosia nei confronti della sorella Susanna, che aveva avuto gran successo col famoso “Vestivamo alla marinara?”. “Non scherziamo. A lui il libro non era piaciuto, non gli piaceva che si mettessero in piazza le loro cose personali. E poi non c’era certo rivalità. E’ vero che era l’unica delle sorelle con cui avesse un rapporto alla pari, ma non era certo competitivo con lei”. Era cattiva Suni? Con la famosa rubrica della posta, i consigli perfidi.... “No, cattiva no. Un po’ presuntuosa, ecco. Anche se lei in un altro suo libro scrive che ero presuntuoso io”. E Umberto? Nel libro lei scrive che aveva dei complessi. “Sì, lui era molto tranquillo, molto ragioniere. Non condivideva le stravaganze dell’Avvocato. Lo aveva in enorme rispetto, ma non in simpatia”. Ma insomma, Gawronski, dopo vent’anni, cosa rimane di Gianni Agnelli? “Mi viene in mente il discorso di Antonio sulla tomba di Cesare, l’ho riletto da poco: ‘Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa’”. E giù imperatori...


  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).