la recensione

Il gran racconto di Camille Paglia su arte e decadenza

Ginevra Leganza

Ci sono Apollo e Dioniso dietro le “Sexual Personae” del canone d’occidente. Il capolavoro della filosofia libertaria poco amata dalle post-femministe torna in libreria

In ogni oggetto d’arte Camille Paglia vede l’abito di un’epoca. E nei suoi lembi, il nome di Dioniso o Apollo. E’ la traiettoria del capolavoro Sexual Personae. Arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson, libro che in italiano quasi non si trovava più. Edito nel 1990 a Yale e nel 1993 da Einaudi, oggi è meritoriamente ripubblicato dalla Luiss University Press. 

Camille Paglia, femminista libertaria, nasce nello stato di New York. Origini famigliari ad Avellino, Benevento, Caserta. Lei e la sua esistenza suscitano da sempre reazioni estreme. Venerazione totale com’era a suo tempo per David Bowie, occhi di brace per buona parte del corpo accademico statunitense. Come per lo star system accasciato nel moralismo: qualcuno ricorderà Madonna che sul palco dei Billboard Awards, nel 2016, le si scagliò contro in lacrime. La filosofa ne elogiava il bell’ancheggiare, l’uso sapiente del corpo, la libertà. Ma la calza a rete era già maniera per la regina del pop, che da quei commenti si sentiva “oggettificata” come una qualunque Elodie. 

 

Dalla Venere di Willendorf, Paglia trasvola sino a Jane Austen e Elvis Presley. In Sexual Personae sfilano tutte le maschere del teatro d’occidente che, serrando le porte al modernariato culturale (agli strutturalismi e ai tic foucaltiani), riabbracciano l’idea di un canone. Ossia la certezza che la storia occidentale sia una meravigliosa processione di archetipi orientata da due spiriti: Dioniso e Apollo. Non un’impalcatura di parole da decostruire né di miti da sfatare, ma una sequela di immagini, storie e riti che hanno incarnato il mistero dell’uomo e della donna. E meglio che ad altre latitudini l’hanno raccontato, dando corpo a un’avventura cominciata nell’antico Egitto – la terra che con Nefertiti inventò il glamour – e proseguita sino alle piramidi del capitalismo. 

 

Il punto è sempre questo: ogni persona del corteo, in ogni epoca, porta dentro un amalgama di linee e caos. I periodi più fiorenti – quelli in cui la bellezza assoggetta lo spazio – sono buoni mediatori fra Apollo e Dioniso, siccome “le esaltazioni della bellezza e della necessità dell’ordine sono il segnale dell’incombere del disordine”. E’ lo stesso principio del decadentismo di metà Ottocento: quando le fauci dell’universo si restringono, Apollo fa incursione nell’orgia romantica e antepone alla natura le leggi dell’arte. E’ il momento delle vampire preraffaellite e dell’androgino. Persona sessuale, quest’ultima, di superiore scienza: elitista che niente ci azzecca con l’idea post-femminista e normalizzante di chi risolve il caso d’ambosessi in un asterisco. O nella convinzione di pura naturalità della faccenda. Tutt’altro. L’androgino è Nefertiti che stempera la furia naturale nella forma perfetta e si sviluppa per lungo: in una testa glam che minaccia di spezzarle il collo; o in Emily Dickinson ribattezzata Madame De Sade, con la sua natura di gatti assassini e uccellini beccanti vermi, in un viavai di torture e crimini sublimati in poesia. L’androgino nell’arte spiega bene che in ogni uomo di carisma c’è un pezzo di donna; in ogni donna d’intelletto, un pezzo d’uomo. Come nel caso di Camille Paglia, lesbica che pure ama il maschio. Finanche nel patriarcato.   

 

“Quando attraverso il ponte George Washington […] penso: questo ponte l’hanno fatto gli uomini. Quando vedo passare una colossale gru issata sul pianale aperto di un camion mi fermo piena di riverenza e di sacro timore, come davanti a una processione religiosa […] Questa gru ci ricongiunge all’antico Egitto”. Così scrive la femminista che tratta il maschio senz’astio e gli riconosce il culto apollineo dell’ordine, pur cogliendo in lui una certa incapacità di sopportare la natura feroce della donna. Camille Paglia ne è sicura: se la civiltà fosse finita in mano a noi donne si vivrebbe ancora nelle capanne. Chissà. Ma qual è lo scandalo se architette e ingegnere sono nane sulle spalle di giganti millenari: il mondo che ereditiamo è costruito dai maschi, e va bene, perché “il costruire”, scrive Paglia, “è la poesia sublime del maschio”.

L’unica svolta vera è nella libertà di quella donna che si emancipa dalla natura ferina come dal rancore. E’ la ragazza che costruisce. E che riconoscendo in sedia, calamaio e computer l’opera di un maschio, la sfrutta o la riprogetta. E poiché di nome non fa Madonna Ciccone, si dà poca pena se un commento la “oggettifica”. La donna libera usa il corpo come una virago di Michelangelo o una Venere di Botticelli. O come un androgino in bronzo dell’arte italiana: ieratica dinanzi alla critica, statuaria almeno quanto il David di Donatello o il Perseo di Benvenuto Cellini. Capace dunque, da diva o androgino, di mediare l’abisso dei suoi pensieri con rigore e linearismo apollinei. 

Nelle persone sessuali maschi e femmine si mescolano da Giza a Hollywood, in equilibri vari. Ma senza mai una nota a piè di pagina, “la mala erba accademica”. Ventiquattro capitoli densissimi col cuore in un concetto: senza Dioniso Apollo non canta.

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