un libro
Interviste per ricordare il futuro
Quarantanove colloqui di Maurizio Cecchetti raccolti in un libro. Documenti di straordinaria efficacia comunicativa che però non hanno mai influenzato il sociale. La morale: sapevamo cosa affliggeva l’umanità, ma non abbiamo fatto nulla per impedirlo
Il giornalismo, soprattutto quando si muove tra politica e cultura, leggendo l’una come presupposto o conseguenza dell’altra, se lo incontriamo quotidianamente sembra effimero. Ma se poi, a distanza di anni, entra in un libro, succede che riveli una vivacità e libertà, un’efficacia comunicativa che i libri scritti come libri raramente hanno. Chi scrive per l’oggi sa di dover documentare il clima del momento, “l’air du temps”, e questo tono semi-diaristico della cronaca e della conversazione viene conservato a futura memoria.
Libro confortevole come una buona poltrona in cui sedersi a riflettere e a parlare con un amico, “Promemoria occidentale. 49 interviste per ricordare il futuro” di Maurizio Cecchetti (Medusa Edizioni, pp. 242, euro 18) ci parla di molte cose, quasi di tutte. Diversi gli autori intervistati e varie le loro competenze e personalità: scrittori, studiosi, filosofi, storici, uomini di fede che rispondono alle domande di Cecchetti in anni che vanno dal 1986 al 2010. Sembra che le opinioni di allora possano mancare di sufficiente attualità. È vero invece il contrario. Come dice lo stesso intervistatore e curatore del libro, “queste interviste facevano emergere questioni e domande che spesso hanno prefigurato e anticipato quelle attuali”.
Qui è l’interesse del libro. Purtroppo è però anche una ragione di sconforto. Sappiamo, pensiamo e diciamo cose vere che non cambiano i nostri comportamenti, non influenzano positivamente la politica e la vita sociale. Il tempo passa, noi capivamo quali erano i problemi e più o meno come affrontarli. Invece ora, decenni dopo, ci toccano le pesanti, drammatiche conseguenze da tempo previste.
In un’intervista rilasciata nel giugno 1998, Paul Valadier, gesuita, filosofo e collaboratore della rivista Études, pur premettendo di non voler concludere “che le nostre democrazie siano totalitarie e neppure che siano indifferenti all’individuo”, non si nasconde che la situazione della morale in una società moderna “è come quella di chi si oppone a mani nude alle pressioni delle grandi potenze politiche, tecnologiche ed economiche”. L’individualismo si diffonde, ma è confinato in un angolo, nel ghetto dell’impotenza politica, in cui consuma se stesso nell’inutile sperpero delle proprie potenziali energie: “Ci troviamo di fatto all’interno di società dove si intrecciano molti poteri (finanziari, tecnologici, economici, politici, religiosi…)”. Ma la contrapposizione è proprio fra “i poteri e il bene”. La soluzione potrebbe essere, dice Valadier, che ogni potere trovi “al proprio interno un’autoregolamentazione”. Il che richiede che la coscienza morale e deontologica agisca in ogni professionista che eserciti un potere. Sembra di tornare al più sensato dei progetti del ’68: responsabilità sociale di medici, architetti, scienziati, magistrati, insegnanti, non per “fare la rivoluzione” (la grande allucinazione di allora) ma per migliorare la vita pubblica e magari riformarla.
Politicamente parlando, mi fermo a Valadier. Filosoficamente segnalo l’intervista del 1999 a Remo Bodei, il cui tema è come la tecnologia, modificando il rapporto con il tempo (tutto viene velocizzato) modifica umanità, coscienza e storia. Mentre in passato “si riusciva ad accumulare esperienza (…) oggi la quantità di esperienza che riusciamo a racimolare è molto ridotta”. Il tempo tecnologicamente modificato è sempre più breve e “ci spinge a vivere in un presente operazionale” in cui più che scegliere e decidere attiviamo macchine e dispositivi. “La tecnologia è entrata nel corpo umano”, sia nella mente sia nel patrimonio genetico. I ritmi biologici e neurologici sono alterati, scavalcando le mediazioni del pensiero autocosciente. Aldous Huxley nel suo “Il mondo nuovo” (1932) lo aveva previsto con precisione, senza bisogno di leggere Foucault che parla di “biopolitica”.
Infine il sociologo dei “non-luoghi” Marc Augé, intervistato nel 2009. Sempre più, invece che in luoghi ben connotati e in contesti specifici che fanno ambiente, viviamo genericamente nel pianeta Terra, luogo e non-luogo globale. Le trasformazioni degli spazi urbani ci stanno addestrando a questo. Il famoso e tanto agognato universalismo mostra i suoi limiti e guai. Anzitutto l’impoverimento delle differenze fra i “qui” e gli “altrove”. Non è ancora una realtà ma è una innegabile tendenza. Tutto il mondo è dovunque (cinque etnie fuori contesto a Tor Pignattara) e tutti, dovunque, con gli smartphone in mano e le cuffiette per musica appena possibile: il più vero “dove”, tana e nido, sono lì.
C’è un antidoto a questo? Augé sperava che l’educazione fosse “la grande rivoluzione del nostro tempo”. Però, dopo dieci anni dalla sua intervista, scuola e università sono peggiorate e l’impegno a migliorarle evapora nell’inerzia e nella noia. In un modo o nell’altro la Rete sta divorando l’educazione.