Dalla scuola alle istituzioni
La storia della famiglia che se ne torna in Finlandia, una lezione sulla cultura italiana
Un paese che vive di grandi narrazioni: l'idea che se non vai bene a scuola è colpa tua, un orgoglio per le piccole cose da cui nascono le tradizioni. Più che a un'identità però, possono assomigliare a una prigione
Dalla storia della famiglia finlandese che rinuncia a vivere in Sicilia per la scarsa qualità delle scuole, ho capito alcune cose sulla cultura italiana. A quanto pare, la cultura italiana da preservare con accanimento è quella in cui stiamo al chiuso – noi, paese tradizionalmente freddo e inospitale – in classi asfittiche che puzzano di sudore, classi in cui la prof. alza la voce e batte il palmo sulla cattedra per farci fare silenzio. Questo è il primo concetto che va difeso, contro l’invasore barbarico che ci vuole a imparare all’aperto, nel contesto e nello spazio, come raccomanda la pedagogia – che però è anch’essa straniera e sicuramente radical chic e cosa vuole questa fighetta digital nomad.
Mi viene in mente uno sketch di Mattia Stanga, comico e content creator, la sua imitazione della prof. coi braccialetti. Le minacce bonarie – l’autorità è spesso bonaria, solo dall’alto si possono concedere indulgenze – “ragazziii buoni che vi metto tre”; “ragazzi siamo indietro col programma, non vi porto in gita”. In quei video ci siamo immedesimati in molti, non solo gli studenti di Siracusa, e infatti Stanga ha un milione di follower. Io le scuole le ho fatte a Milano, dalla prima elementare nel 1990 all’ultimo anno di liceo classico G. Berchet nel 2003 – le scuole pubbliche eccellenti, tanto eccellenti che nei Pisa studies, un’indagine internazionale Ocse con lo scopo di valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi industrializzati, siamo sempre tra gli ultimi: 33° posto nella comprensione scritta, 40° nelle scienze. Quando andai a studiare all’Università di Cambridge un professore mi disse “non è colpa mia se in Italia non vi insegnano la matematica di base”.
L’immagine del maestro che guarda i piccoli studenti con distanza e dall’alto, descritta dalla finlandese, è alla base della mia esperienza scolastica. La sensazione corporea, materiale, della frustrazione che si accumulava quando cambiava l’ora e l’ennesimo prof. entrava senza che fosse concessa una pausa tra un’ora e l’altra (io la facevo: ebbi 7 in condotta), pure. Ma io, si sa, sono tonta. E non neurotipica (Adhd); sono certa che gli altri riuscissero a concentrarsi perfettamente tre ore di fila, e godessero particolarmente di quell’intervallo nel cortile delle elementari: una distesa di cemento.
Nella scuola italiana c’è il concetto che se non vai bene è colpa tua, o sei un frignone, e tale concetto, ho imparato in questi giorni, va difeso. Ci vuole durezza. Il problema sono i genitori, ho sentito. Quest’ultima osservazione svela in realtà un punto serio dei Grandi Problemi dell’Italia: l’assenza di fiducia nelle istituzioni. I genitori intervengono, sconfinano, e forse è vero, disturbano, perché della scuola non si fidano più. Se intervengono così tanto è perché qualcosa non va, penserei io, ma invece no: loro si auto incolpano. Un altro grande leitmotiv italiano: la colpa è dell’individuo. La colpa del Covid era nostra, la colpa della scuola è dei genitori.
Io non ho figli a scuola, che ne devo sapere. Il problema è che diventa difficile, quando li hai, ammettere non dico la catastrofe, ma l’inadeguatezza: l’istruzione è il pilastro della nostra identità, criticarla in modo radicale equivarrebbe ad ammettere che stai dando ai tuoi figli un mondo meno che ottimale, e questo nessuno vuole farlo.
Ho imparato che gli italiani sono un popolo orgoglioso. Esterofili, ma poi nel concreto, quando qualcun altro fa una cosa bene: sì vabbè ma quelli sono in quattro gatti. Sì vabbè ma quelli non hanno i bidet. E’ l’orgoglio delle cose piccole, e si inventano tradizioni. Per esempio, sono orgogliosi del rumore. Solo i tristi bambini finlandesi possono imparare in un ambiente sereno e silenzioso. A me il continuo brusio ad alto volume della scuola, l’acustica insopportabile, quel distinto casino tipico dell’esperienza scolastica, misto al sistema punitivo dei voti – i professori si lamentano che non possono più dare i quattro, strumento indispensabile per instillare cultura, il quattro – la paura, tutto questo mi faceva pensare a una prigione. Sentire in prigione. Era solo la cultura italiana, e neanche lo sapevo.