opere vuote
Il suicidio (mai concluso) delle arti visive non genera lutto, ma applausi
La logica di considerare arte quella che viene battezzata come tale dai direttori dei musei. Una critica al prodotto di Vanessa Beecroft, che maschera l'insipienza artistica con l'intenzione politica. Con una provocazione finale
Grazie al competentissimo articolo di Valentina Bruschi uscito sabato scorso su questo giornale, vengo a sapere che esiste una artista di nome Vanessa Beecroft, famosa autrice di certi tableaux vivants accolti “in alcuni dei più importanti musei del mondo”. Queste cosiddette opere d’arte, meritevoli di una tale attenzione e considerazione, consistono di gruppi di donne, di volta in volta nude o seminude o vestite, che devono restare in piedi pressoché immobili come se il pubblico che le guarda non esistesse e ognuna di loro ignorasse la presenza di ogni altra a un metro o a pochi centimetri di distanza.
Valentina Bruschi spiega esaurientemente le intenzioni, il metodo e le pretese dell’artista; anche se, a giudicare dalla grande foto che illustra l’articolo, sarebbe lecito chiedersi perché l’autrice sia considerata, e consideri sé stessa, un’artista straordinariamente interessante e autorevole. La prima cosa che può venire in mente a chiunque, eppure non viene in mente agli “addetti ai lavori”, è che una volta che si riesce a farsi considerare artisti su cui investire, perfino senza ragione o quasi, da quel momento in poi si può fare qualunque cosa e questa cosa sarà considerata una significativa opera d’arte su cui riversare sofisticate teorizzazioni estetiche, etiche e politiche.
Arte in realtà vorrebbe dire talento specifico, lavoro e realizzazione tecnica di oggetti la cui presenza e consistenza fisica e il cui valore durano nel tempo. Il solo merito di questa autrice mi sembra invece l’astuzia di toccare un tema di sempre maggiore magnetismo pubblico: il corpo femminile e l’uso o abuso che la nostra società e cultura ne fanno.
Questi gruppi di donne in carne e ossa, in mezzo a enormi, inespressive, forse allusive teste di materia dura indecifrabile, compaiono nella foto pudicamente avvolte in lenzuoli o camicioni bianchi. Ma che cosa sono, che cosa significano, che cosa trasmettono? Non sono certo pittura, non sono scultura, non sono neppure e propriamente performance parateatrale, dato che le donne devono stare ferme e non devono in nessun modo “interagire”.
Ho qualcosa da dire in proposito? Forse sì, e questo qualcosa è che tali non-opere di Vanessa Beecroft diventano opere perché i critici d’arte e i direttori dei musei le battezzano arte, dopo aver battezzato artista chi le firma: un presupposto, quest’ultimo, indispensabile perché tutta la complicata faccenda funzioni.
È una logica che va avanti indisturbata e mai criticamente considerata da più di mezzo secolo. Tutto avviene, naturalmente, all’insegna della “provocazione”: consistente nel fatto che al pubblico dei docili profani viene fatto ingoiare l’uso improprio di termini come arte e artista. Alla fine, ma anche fin dal principio, l’opera d’arte finirà per coincidere con l’effimera esibizione-organizzazione vivente di questi gruppi di donne immobili? No, coinciderà piuttosto con le foto che ne faranno circolare l’immagine e con le didascalie interpretative che le accompagnano. Così la cosiddetta performance potrà finire negli archivi bibliografici.
Tutto questo mi incoraggia a compiere a mia volta la provocazione non artistica ma critica di valutare il prodotto di Vanessa Beecroft avendo davanti a me solo una foto. L’autrice dell’articolo da cui sono partito cita poi per completezza informativa alcune righe con cui Giorgio Agamben interpretò un’opera di questa autrice. È da circa quindici anni che non prendo più sul serio le ingegnose trovate filosofiche di Agamben a proposito di arte, società e politica. Sembra che si sia specializzato nel dire che ogni cosa è il contrario di quello che è: che per esempio la democrazia è una dittatura e il modo migliore di comunicare è il silenzio (con questa logica, però, il suo ininterrotto scrivere su tutto non equivale forse a non dire niente?).
Il talento pubblicitario della Beecroft maschera la sua insipienza artistica con un’intenzione politica: la difesa simbolica delle donne. Corretto, correttissimo dal punto di vista morale e politico. Ma non è di per sé una garanzia di qualità o realtà artistica. È (come si diceva una volta) contenutismo privo di arte.
Uso le imprese di Vanessa Beecroft come un pretesto per ripetere cose dette da alcuni fin dai tempi in cui Eugenio Montale visitava e recensiva nei primi anni Sessanta le Biennali di Venezia. Si trattava e si tratta del rinomato, spettacolare, ossessivo e mai concluso suicidio delle arti visive. Un suicidio che non genera lutto, ma applausi sempre più convenzionali. Si tratta dell’arte senz’arte. Arte che si dichiara superflua e presente in assenza.
Quanto alla difesa estetica della donna, proporrei questa iniziativa-evento: una rivolta di modelle che si rifiutino di indossare gli assurdi e spesso orripilanti abiti firmati da famosi stilisti. E si rifiutino di camminare e di muoversi seguendo il ridicolo, avvilente stile di incedere imposto nelle sfilate di moda. Siate naturali, seguite il vostro stile! Se vi ribellate, voi sì che sarete provocazione, performance e arte politica.