Il libro
La storia millenaria dei nomadi raccontata da chi ha incrociato la loro via
Il volume di Anthony Sattin, da Chatwin a Deleuze. Un po' giornalismo, un po' racconto personale e un po' di viaggio. Nell'opera l'incontro con beduini, tuareg, inuit o guaranì. Una narrazione globale e senza tempo
"Per fortuna c’è Gilgamesh”. Tanti anni fa era la battuta ricorrente in un gruppo di giornalisti che scrivevano di mare. Gilgamesh è il mitico re di Uruk, personaggio del primo poema epico della storia, che intraprese un viaggio alla ricerca della pianta della giovinezza celata in fondo all’oceano. Le sue fantastiche avventure erano un perfetto sfondo per qualunque storia si dovesse scrivere, le davano fascino. Gilgamesh appariva l’archetipo dell’esploratore. Era un errore. Gilgamesh è l’archetipo del sovrano. Non è un nomade, bensì colui che si stabilisce in un luogo e vi fonda una città. Appartiene alla stirpe di Caino, primo agricoltore stanziale, e non a quella di Abele, pastore errante.
Questi personaggi e le loro storie compaiono nel libro di Anthony Sattin Nomads: The Wanderers Who Shaped Our World (W.W. Norton & Company). Sattin è l’incarnazione dello storyteller: scrive libri che mettono assieme giornalismo, racconti di viaggio, storie personali. Una formula che mantiene anche in questo saggio in cui traccia dodicimila anni di storia dei nomadi. Poco dopo l’inizio di questo percorso, all’epoca della rivoluzione neolitica, con il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a quella agricola, si colloca l’omicidio di Abele il pastore per mano di Caino l’agricoltore. Si definisce così quella “coscienza metafisica” che divide l’umanità tra stanziali e nomadi.
A questo viaggio plurimillenario, avendo per compagni di strada eroi mitici, conquistatori, filosofi, poeti, scrittori, scienziati, Sattin intreccia gli anni dei suoi viaggi con beduini, tuareg, inuit o guaraní che mantengono il nomadismo dei loro avi. Questa categoria etnologica ormai obnubilata di nomadi tradizionali si somma alla categoria antropologica dei nomadi contemporanei: nomadi digitali come migranti.
A Sattin si attaglia la descrizione che Hans Magnus Enzensberger ha fatto di Chatwin: “Un narratore che non inventava storie, le connetteva, le allargava, le coloriva… Non dice una mezza verità, ma una verità e mezza”.
Nomads è dunque un libro caotico, come quelli di Chatwin che in queste pagine appare e riappare. Un libro che si presta a un commento nomadico, dove chiunque in un momento della sua vita si sia messo in cammino, abbia sognato di farlo, abbia letto o ascoltato i racconti di un viaggiatore, ritroverà vecchi compagni di strada, maestri e cattivi consiglieri, stregoni e maghi, avventure e disavventure. E questo, dice Sattin, accadrà tanto più in età avanzata “perché per qualcuno è dura mettersi comodi ed essere felici tra quattro mura”.
Quei vecchi baroudeur, nomadi di ventura e avventurieri, come li chiamava un grand reporter francese che, anche lui, non voleva rassegnarsi al trascorrere del tempo, potrebbero essere portatori del “gene nomadico”. Sattin, infatti, ipotizza che l’irrequietezza dei nomadi sia dovuta alla variante 7R del DRD4, un recettore che controlla i livelli di dopamina, rilasciata quando viviamo un’esperienza che ci piace. Il gene nomadico, tuttavia, è qualcosa che attiene alla filosofia più che alla biochimica. È il “pensiero nomade” di Gilles Deleuze, che prescinde dal movimento poiché “esistono anche viaggi in intensità… il nomadismo indica il movimento di un pensiero che resiste alla codificazione”. Un pensiero che trova la sua anticipazione in Immanuel Kant, filosofo nonché geografo, secondo cui “la geografia è alla base della storia”.
Nei prolegomeni alla filosofia nomade che è il libro di Sattin si ritrovano così le radici di molti scenari geopolitici contemporanei di cui spesso si ignora la spesso dimensione spaziale. Il pensiero nomade, però, presenta un rischio: cedere al “romanticismo” geografico, come lo definisce Sattin, che ricorda quanto scriveva Rimbaud: “Devo viaggiare per dissipare gli incantesimi che si addensano nella mia mente”. Alla fine, specie per i vecchi nomadi, è inevitabile ripensare a quel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” in cui anche il nomade è vittima del leopardiano “pessimismo cosmico”, costretto allo stesso destino di infelicità di un sedentario.