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L'insensata idea di negare l'ebraicità di Gerusalemme e del Monte del Tempio

Alessandro Litta Modignani

Il libro di Yitzhak Reiter e Dvir Dimant, "Il Monte del Tempio-Ebraismo, islam e la Roccia contesa”

La recente visita del ministro della Sicurezza di Israele, Itamar Ben-Gvir, sulla Spianata delle moschee, con le prevedibili reazioni rabbiose del mondo arabo-musulmano e i consueti “appelli alla prudenza” delle timorate cancellerie occidentali, ha reso di grande attualità la disputa politico-religiosa sulla ebraicità di Gerusalemme.

 

In questo contesto, capita a proposito il bel saggio di due autorevoli studiosi israeliani, Yitzhak Reiter e Dvir Dimant, intitolato appunto Il Monte del Tempio-Ebraismo, islam e la Roccia contesa” e pubblicato in Italia da Guerini.

 

Nell’introduzione, i due autori prendono le mosse dalla famigerata delibera Unesco del 2016 che, in relazione a Gerusalemme, cita i luoghi religiosi della città, compreso il Monte del Tempio e l’area prospicente al Muro del Pianto, unicamente con la denominazione arabo-musulmana, indicandoli così implicitamente come luoghi sacri all’islam e a esso soltanto. Quel testo, redatto da mani palestinesi e giordane e poi presentato da sette stati arabi, costrinse la direttrice Unesco dell’epoca, Irina Bokova, a riconoscere che la delibera “arrecava un danno al popolo ebraico”. In realtà l’Unesco, nel suo passato, aveva già all’attivo una lunga serie di interventi e prese di posizione ostili a Israele.

 

Nel primo capitolo si analizzano minuziosamente le fonti islamiche antiche, dalle prime versioni scritte del Corano alla copiosa letteratura medioevale classica, un consistente corpus di testi, tutti caratterizzati dal preciso riconoscimento delle radici ebraiche del Tempio, costruito due volte dagli ebrei e due volte distrutto – la prima dai babilonesi, la seconda dai romani.

 

Gli stessi conquistatori musulmani di Gerusalemme riconobbero appieno la sacralità per gli ebrei del Monte del Tempio, in coerenza con il Corano e con una pletora di commentari successivi, che ne fanno esplicito riferimento come luogo ebraico: insomma “la narrazione storica adottata dai musulmani recepiva la consueta narrazione storica biblica”.

 

Il secondo e terzo capitolo analizzano invece le fonti islamiche contemporanee. La maggior parte è tesa a negare l’ebraicità del Monte del Tempio (e financo la sua stessa esistenza) all’evidente fine della delegittimazione storica, politica e religiosa di Israele; una minoranza invece ne riconosce il carattere ebraico, ma si dedica a un’estrema minimizzazione di questo legame.

 

Tra gli scritti presi in considerazione, alcuni mostrano di ignorare le fonti classiche, altre di negarne l’autenticità o l’attendibilità. Secondo questo composito fronte negazionista, il Monte del Tempio sarebbe una “cospirazione sionista”, oppure “non si trovava in Palestina”, gli ebrei contemporanei non sarebbero discendenti dagli antichi israeliti e così via, con tesi sempre più bizzarre, fino a sostenere che “Abramo, Davide e Salomone sono figure islamiche”.

 

Contraddizioni a parte, tutte queste teorie finalizzate a colpire Israele, attraverso la più tipica eterogenesi dei fini producono però un effetto perverso: si rivelano un formidabile boomerang per le fondamenta stesse della religione musulmana.

 

Sulla base di tutta la teologia islamica, infatti, “l’islam è da considerarsi una continuazione della fede monoteistica di Abramo, sì che le personalità della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento, alcune delle quali trovano menzione nel Corano, fanno parte della storia islamica”. Se così non fosse, non si capirebbe come mai nel 692 i conquistatori musulmani avrebbero deciso di costruire proprio lì, sulle rovine del Tempio ebraico, la magnifica Cupola della Roccia. In realtà, concludono Reiter e Dimant, essi “si proponevano di fondare l’islam in quanto successivo e legittimo stadio dello sviluppo storico di santificazione del monoteismo”.

 

In altre parole, negando l’ebraicità di Gerusalemme e del Monte del Tempio, il mondo arabo-musulmano contemporaneo mostra di voler segare il ramo dell’albero sul quale esso stesso è seduto da secoli.

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