Non siamo obbligati ad amare i quadri di Frida Kahlo
La fine delle opinioni, sostituita dalla sindrome del consenso. Lasciateci il diritto di poter dire che quella presunta opera d’arte è orrenda
Una delle peggiori malattie dell’arte e della cultura contemporanea è la fine delle opinioni, sostituita dalla sindrome del consenso. Qualsiasi giudizio negativo su un prodotto culturale o artistico viene trasferito automaticamente all’identità del creatore o al soggetto dell’opera. Allora, come è capitato di recente su Instagram, se mi azzardo a dire che non mi piace o meglio, che l’arte di Frida Kahlo mi ha veramente stufato, c’è qualcuno che immediatamente mi apostrofa con “porco maschio che critica una delle poche artiste donne che hanno avuto successo in un sistema dell’arte dominato da altri maschi porci”. L’Isis della correttezza politica, i razzistofobici, i generofobici, i terzomondisti vintage e le brigate lgbt, non capiscono che così facendo chi fa le spese del loro odio per il White man walking, il maschio bianco condannato culturalmente a morte, è proprio l’artista “altra”, ridotta e condannata alla propria anagrafica a prescindere dal talento creativo buono o cattivo che sia. Quindi un quadro di Frida Kahlo non è bello perché è bello ma bello d’ufficio perché opera di un’artista donna, messicana, differentemente abile e vissuta nelle grinfie di artisti maschi violenti e prepotenti.
Paradossalmente, la minoranza che finalmente si è liberata dal complesso di minoranza e dalle ingiustizie che si porta con sé si ritrova costretta a tornare quello che era per servire la nuova stesura della storia, che certo corregge le ingiustizie ma cancella pure il naturale talento di tanti che l’ingiustizia l’hanno sconfitta con la loro genialità e bravura. Miles Davis era afroamericano, ma più che altro un gigante della musica a prescindere. Il folklore che accompagna Frida Kahlo invece riduce la sua arte alla sua femminile messicanità dalla quale la poverina si era anche provata a liberare approdando a New York sulle pagine di Vogue nel 1937. Si è ribaltato il punto di vista. Non è più la grande arte ad avere la possibilità di essere politica, sociale e di protesta, ma sono la politica, la società e la protesta che sdoganano l’arte il più delle volte. Quando va bene, ci troviamo davanti al populismo di Banksy o al dissenziente Ai Weiwei; quando ci va male ci troviamo davanti al raccapricciante murale di tale Claudia La Bianca nel quartiere Wynwood di Los Angeles dedicato a Mahsa Amini vittima della repressione iraniana. Il murale è stato realizzato assieme a immigrati iraniani ed è finito fra le notizie principali di mezzo mondo come una sorta di Guernica de noantri o una Zattera della Medusa di Gericault, questi sì capolavori politici e sociali di una storia dell’arte e di una storia sociale – alla Hauser per intenderci – dove è l’arte a raccontarci le trasformazioni della società e non la società a dirci cosa è arte e quale sia quella non tanto buona ma corretta. Ogni opinione negativa sulla qualità estetica di questo murale è praticamente vietata per la tragicità del soggetto. Se uno se ne frega, si espone al talebanesimo del buonismo imperante. Buonismo capace di far credere al disabile con il pennello in mano di essere Velázquez, magari lo è ma non obbligatoriamente.
La fine dell’opinione è un esecuzione sommaria della qualità libera dell’opera d’arte. Questo non vuol dire che un ipotetico talentuoso boia di Treblinka che fa il pittore debba essere celebrato al Metropolitan, ma neppure che un soggetto umano artisticamente incapace, ma etnicamente, geneticamente o sessualmente corretto, possa essere trasformato o trasformata in una pietra angolare della storia della cultura e dell’arte.
Lo schifo o il sublime nell’arte non dipendono da generi, razze, altezze o grassezze ma dalla loro autonoma libertà di farci vomitare o sognare senza il timore se non accade di sdegnare, notandolo, qualcuno, qualcuna, qualcuni.