Ragione & vanità
I vizi degli intellettuali? Esibizionismo e spregio del senso comune. Li ha smascherati Paul Johnson
È l'idea di un sapere segreto, precluso ai più e in vibrante contraddizione con le presunte illusioni dell'esperienza, che eccita gli uomini di pensiero. Breve biografia dello storico scomparso la scorsa settimana
L’understatement non era il suo forte. Forse è per questo che gli obituary di Paul Johnson, morto la scorsa settimana a 94 anni, hanno ricordato più il polemista che lo storico, più il giornalista che il pensatore. Eppure, caso raro fra quanti vivono per vedere il proprio nome stampato a intervalli regolari, Johnson lo era davvero, un pensatore. I suoi libri più importanti, da Modern Times (1983) a The Intellectuals (1987) ad A History of the American People (1997), non sono soltanto lavori di grande divulgazione. Non sono, per intenderci, la Storia d’Italia di Montanelli (e Gervaso e Cervi): un minestrone di ricordi degli studi del liceo, non a caso servito a un paese in cui il liceo lo frequentavano in pochi ed era una cosa un po’ più seria di quello che poi abbiamo fatto noi. C’è dentro una prospettiva storica originale, poca ricerca di prima mano ma straordinaria capacità di sintesi, quel ricostruire i nessi causali degli eventi al di là del prima e del dopo che è tipica degli storici veri. In questo modo, partendo dai fatti ma leggendoli in modo radicalmente diverso dai più, Johnson ha esercitato una influenza decisiva sul movimento conservatore, soprattutto negli Stati Uniti, e più in generale sui suoi lettori. La teoria del ciclo economico degli economisti di scuola austriaca, che spiega che alla radice del bust c’è un boom artificialmente prodotto dall’espansione del credito indotta dalla politica monetaria, prende vita nelle pagine di Johnson sulla Grande depressione, s’intreccia con le vicende politiche degli anni Venti, accende la perspicacia di chi le legge. Abilissimo artigiano della parola, sono però la curiosità intellettuale, il gusto del dettaglio, la determinazione nel mettere a testa in giù alcuni miti storiografici ma giocando allo stesso gioco degli storici, a fare di Johnson una delle voci più importanti del conservatorismo anglosassone del secondo dopoguerra.
Johnson studiò al Magdalen College di Oxford, aveva i capelli rossi ed era cattolico, caratteristiche l’una e l’altra che gli avevano fatto conoscere l’esperienza del pregiudizio e del sospetto. Ma solo ai tempi della boarding school. Da bambino, quando “i miei riccioli rosso-oro avrebbero benissimo potuto essere quelli di una ragazzina”, al contrario la sua zazzera richiamava l’attenzione. “La gente si fermava per strada e faceva i complimenti a chiunque mi accompagnasse per il mio aspetto da cherubino, per poi passare le dita, non sempre pulitissime, tra i miei capelli. Mia madre non lo sopportava”. Agli anni dell’infanzia Johnson ha dedicato un libro scritto in punta di piedi, The Vanished Landscape (2006). Il titolo si riferisce al distretto delle Potteries, la zona di Stoke on Trent, fra Birmingham e Manchester, dove la sua famiglia si era trasferita proprio da Manchester (Paul era nato lì). Le Potteries, lo dice il nome, erano famose per le ceramiche e le ciminiere vittoriane che le sfornavano. Quel paesaggio di stabilimenti e fabbrichette, con le sue cloache e i suoi rifiuti, a un bambino sembrava “bello e selvaggio: un inferno disperatamente romantico in cui potevano dimorare allegramente fatine maliziose e folletti, demoni e troll”.
Il padre era un artista e preside della scuola d’arte a Burslem. Era “un conservatore alla Edmund Burke, un uomo che amava il passato e che avrebbe preferito che le tradizioni venissero adattate e cambiassero lentamente, anziché essere trasformate”. Adorava la Spagna, dove andava ogni estate “per disegnare le sue chiese, cattedrali, monasteri ed edifici medievali di ogni sorta”. Per questo osservò la guerra civile con grande dolore, parteggiando per Franco pur detestandone gli alleati: gli sembrava, delle fazioni in lotta, quella più rispettosa dello spirito del paese. “Invecchiava a vista d’occhio nel vedere la terra che amava tanto venire devastata dalla guerra civile, da est a ovest, da nord a sud. Non ci metterò più piede, mi disse, non potrei sopportarlo. Un giorno lo stavo accompagnando in chiesa quando incontrammo una malconcia processione di sinistra, preceduta da uno striscione che invocava ‘Più armi alla Spagna!’. Mio padre sospirò: la Spagna ha già abbastanza armi. Anche troppe, ahimè”. Guardacaso Paul Johnson ammirava molto George Orwell, che “non si limitò a dare il suo appoggio morale alla repubblica” da dietro la macchina da scrivere “come la quasi totalità degli intellettuali occidentali, ma, pressoché unico tra essi, andò a combattere”. Orwell, nota Johnson, apprezzava la poesia di Auden “Spagna” ma non il suo verso più noto: “La scioccante accettazione della colpa nell’assassinio necessario”. Una frase simile poteva scriverla giusto un uomo “per cui assassinio è al massimo una parola”.
Il padre di Johnson, conservatore burkeano, a suo modo insegnò al figlio ad amare il panorama industriale delle Potteries. La madre sopportava a fatica. Vedeva la miseria degli operai e sperava potessero affrancarsene. “Era una liberale alla Gladstone. Citava il vecchio slogan elettorale ‘Pace, non-interventismo e riforme’”. Molti anni dopo, Johnson impersonerà meglio di chiunque altro l’incontro di queste due tradizioni. Da principio però si schiera a sinistra. Distaccato a Gibilterra, aveva visto “le miserie del regime di Franco” e poi a Parigi, nel 1952, era stato testimone della repressione brutale dei manifestanti che protestavano contro la visita del generale Matthew Ridgway, comandante supremo della Nato. A Parigi è corrispondente del New Statesman, al ritorno a Londra entra in redazione e ne diventa direttore nel 1965. Con Johnson, il settimanale tocca il picco della diffusione: 100 mila copie. Il suo riferimento politico è Aneurin Bevan, l’ex minatore gallese che creò il National Health Service.
È al New Statesman che comincia ad avere consuetudine coi potenti, in questo caso i potenti del partito laburista, oltre a figurare nell’intellighenzia del paese. Ma sin dagli esordi c’è in lui una vena sardonica, che in qualche modo corregge il gusto di dialogare coi potenti, di lanciare e strozzare mode culturali, di essere chattering ma anche un po’ ruling class. Tant’è che l’exploit più memorabile del giovane Johnson è un articolo del 1958, in cui stronca quello che “senza dubbio è il libro più odioso che io abbia mai letto”, cioè Dr. No di Ian Fleming. Processato e condannato per “sesso, snobismo e sadismo”. La consuetudine col potere e una verve straordinaria (esercitata su terreni di gioco che a noi ormai sono preclusi) ne fanno un polemista di rango, che come tutti i polemisti si fa scappare qualche parola di troppo.
Si converte al thatcherismo, ammira la Lady di ferro immensamente, ma la racconta come un’eterna studentessa che, guarda caso, mangia solo dalle sue mani. Diventa amico e confidente di Lady D, la descrive, affettuosamente per carità, come la donna più ignorante del mondo per quanto fosse pure la più empatica. Per istinto, non perché le convenisse o avesse un canovaccio da recitare. Johnson stesso fu oggetto di pettegolezzo, per una relazione extraconiugale che era venuta alla luce nei primi anni Novanta. Cattolico non di maniera, ne uscì con una riluttante scrollata di spalle, riconoscendo che le inclusioni nel privato erano, per tutti, il prezzo della notorietà. Raccolse non solo maldicenze ma anche molti nemici e qualche onore. Commander of the Order of the British Empire nel 2016, nel 2006 aveva ricevuto da George W. Bush la Presidential Medal of Freedom.
Negli anni Duemila Johnson ha continuato a pubblicare libri a un ritmo prodigioso, principalmente biografie, in questo caso sì esempi più che altro di eccellente divulgazione. Ma ai tempi in cui scriveva Modern Times, The Intellectuals e The Birth of the Modern (1991), un capolavoro dopo l’altro, la sua prolificità irritava persino gli ammiratori più tenaci. Norman Podhoretz, il direttore di Commentary, diceva: “Posso anche immaginare in che modo Paul riesca a sfornare tutto quel che scrive. Ma come diamine trova il tempo di leggere?”. John O’Sullivan, poi speechwriter della signora Thatcher e direttore della National Review, aveva appena iniziato a lavorare alla Heritage Foundation come direttore della rivista Policy Review, quando Johnson venne lui pure a Washington per un sabbatico all’American Enterprise Institute. Una segretaria, racconta, gli parlò del “mistero” dell’ex direttore del New Statesman. “Gli altri ricercatori dell’istituto arrivano una mezz’oretta dopo di noi segretarie. Vanno in ufficio, fanno qualche telefonata, escono a prendere un caffè e poi si fermano a fare quattro chiacchiere con noi. Anche quando arriviamo molto presto, Paul Johnson è già lì, chiuso nella sua stanza da dove possiamo sentire la macchina da scrivere che ticchetta furiosamente senza interruzione. Ogni tre ore mette il naso fuori della porta, si dirige verso la macchina del caffè, se ne versa una tazza e rientra in ufficio, si mette comodo e la macchina da scrivere riprende a farsi sentire. E, per quanto tardi possiamo fare la sera, la macchina da scrivere sta ancora ticchettando quando ce ne andiamo”. Il miracolo della produttività di Johnson si spiegava così: lavorava più di tutti gli altri.
In The Intellectuals, che, scrisse Giuliano Ferrara nel 2003, “dovrebbe essere conosciuto a memoria da ogni lettore di questo giornale”, Johnson fa due diverse operazioni. In primis, lo ha ricordato anche Paolo Di Stefano sul Corriere della sera, mostra lo scarto fra teorie umanitarie e vite degli utopisti, di solito tutto fuorché irreprensibili. Gli intellettuali del titolo (da Rousseau a Noam Chomsky) ne escono come un esercito di vanitosi, impegnati in quello che oggi si chiamerebbe virtue signalling: la militanza è in primis qualcosa da esibire. Soprattutto, però, Johnson sottolinea come la figura dell’intellettuale moderno sia intrinsecamente eversiva. I produttori di parole sono seguaci secolari dell’eresia gnostica.
L’esempio perfetto è, spiega in Modern Times, Sigmund Freud. “Credeva che esistesse una struttura occulta della conoscenza che, utilizzando le tecniche che egli stava escogitando, poteva essere ravvisata oltre la superficie”. È proprio quest’idea di un sapere segreto, precluso ai più e in vibrante contraddizione con le presunte illusioni dell’osservazione e del senso comune, che eccita gli uomini di pensiero, li persuade di possedere un punto di vista privilegiato sulla realtà, li stimola suggerendo che non conta nulla se quel punto di vista è in tensione con le idee dei più, anzi meglio, è la conferma che aspettavano. Di qui la facilità con cui gli intellettuali si fanno sedurre dall’uso della violenza in politica: che appare l’unico modo sicuro per superare le imperfezioni e le ipocrisie del presente, soprattutto del presente della società borghese. Anche in questo caso, Orwell fu tutt’altra cosa, l’intellettuale anti-intellettuale. Gli riuscì faticoso, nella sua rincorsa a un futuro migliore, arrivare a comprendere ciò che era istintivamente chiaro al suo contemporaneo Evelyn Waugh (un altro eroe di Johnson), ovvero “la fondamentale irrazionalità del comportamento umano”. Però, per quanto disprezzasse la società capitalistica, Orwell non pensò mai che gli esseri umani fossero creta da rimodellare a piacere, per eliminarne i difetti, a cominciare da quelli che li portano a inseguire il guadagno.
In Modern Times, Johnson usa il Novecento per spiegarci che non c’è nulla nella storia che sia inevitabile. È l’incastro del caso, delle individualità, di tanti “momenti fatali” a determinare il corso degli eventi, non le leggi intuite da qualche profeta. In un discorso all’American Enterprise Institute, nel 1979, Johnson sosteneva che “nessuno studioso della storia può dubitare che, nel lungo periodo, il tragitto dell’umanità tenda verso la maggiore libertà dell’individuo”. E tuttavia era costretto a chiedersi: “Chi può affermare onestamente che nel nostro secolo la somma della libertà umana sia davvero aumentata?”. Due guerre mondiali avevano forgiato “il moderno stato-Frankenstein. Gli stati non si sono limitati a sviluppare nuovi e inusitati mezzi di distruzione, ma hanno trovato nuovi metodi di opprimere e nuovi modi di mentire. In tutto il mondo lo stato ha ingurgitato avidamente le maligne trovate che l’ingegnosità umana mette continuamente a disposizione”.
Non si può risolvere la tensione fra la crescita della libertà umana, da una parte, e l’ampliamento costante della sfera del controllo, dall’altra. E’ il dilemma con cui tutt’oggi si confrontano quelli che amano la libertà e che sono costretti a constatarne la fragilità, persino dove sembra abbia attecchito, persino fra quelli che dovrebbero averla più cara. Anche chi, come Herbert Spencer, aveva visto nell’evoluzione dei gruppi umani un processo di crescente diversificazione e collaborazione, nel quale la libertà dell’individuo poteva farsi spazio, aveva intuito che il ritorno del tribalismo, della gerarchia, della guerra è sempre a un passo. Per dirla con Johnson, “Di tutte queste lezioni, quella che la storia ci presenta con particolare urgenza e che noi continuiamo ostinatamente a ignorare è: ‘Guardati dallo stato’”.