Ode a Lorenzo Lotto, pittore dimenticato
Messo in ombra da Tiziano per secoli. Il poeta e anima affine Francesco Scarabicchi ha rimediato all’oblio
Dall’uno gennaio è di nuovo in atto l’iniziativa promossa dal ministero della Cultura “Domenica al museo”, che consente l’ingresso gratuito nei musei italiani e nei parchi archeologici statali ogni prima domenica del mese. E’ lungo e sostanzioso l’elenco di realtà museali e siti storico-culturali cui si può accedere in ogni regione del nostro paese. Bisognerebbe approfittarne, perché educarsi al respiro largo, indugiare davanti alla bellezza, viaggiare con lo sguardo attraverso le cose e il tempo sottratto al suo stesso fluire è sempre cosa buona e giusta. “Mi siedo qui dove m’attardo / come Giacomo pellegrino… / come se fosse sosta verso dove / questo passo che tiene, questo fiato”. E’ cosa buona giusta elevarsi passo dopo passo, “oltre l’abisso d’ombra / che il cuore annega”, perché l’arte è conoscenza, è sempre un tentativo di elevazione verso un assoluto che talora sutura lo strappo del quotidiano vivere. “Oltre la porta e il muro… / da quest’anta di scena, dalla soglia”, qui diciamo di un raro momento di grazia: l’incontro della poesia e della pittura, due espressioni tangibili del linguaggio dell’uomo nel tempo. Un poeta schivo e riservato, un dono per la poesia tutta intera, scomparso nel 2021, Francesco Scarabicchi, uno che portava “in salvo dal freddo le parole”, dà voce a un originale e a lungo ignorato pittore veneziano del primo Cinquecento, Lorenzo Lotto, che ha conosciuto “il gelo dentro il freddo dei momenti”. Nel suo testo “Con ogni mio saper e diligentia – Stanze per Lorenzo Lotto” (edito da Liberilibri, e da cui sono tratti tutti i versi qui presenti), Scarabicchi compie un percorso di sessantuno stanze per dire il silenzio che resta di un destino inquieto e incompreso. “Nascere mi condanna a un’eterna / memoria del mio niente”. Si tratta di un istante di verticale bellezza: verticale è la parola che il poeta presta al pittore e verticale è la luce delle opere del pittore. “Luce ferita che s’insinua ferma / a decretare l’attimo, l’istante / in cui per sempre avviene / quel che non si ripete”. Sono versi in prima persona, fra l’andare di tele e di pene, “vago m’aggiro per le stanze vuote”, il cammino di un io che fra le righe si fa collettivo, “sempre altrove a inseguirmi”. L’altezza della bellezza è vertigine, e in questo caso ci si può concedere il lusso di lasciarsi cadere, “ho abitato la luce che è nell’aria”.
Un percorso per dire il silenzio che resta di un destino inquieto e incompreso. Verticale è la parola del poeta e verticale è la luce delle opere
Francesco Scarabicchi, nato all’inizio degli anni Cinquanta, che fu anche traduttore e si occupò di arti figurative, amava Lorenzo Lotto, pare fosse in assoluto il suo preferito sin dall’adolescenza, e fra il 2008 e il 2011 concepisce l’idea di “dare voce a un’altra vita / di cui ancora serbo la memoria”, e tracciarne l’esistenza fuori dagli schemi attraverso la poesia. “Com’ero nella folla dei minuti? / Cos’era il precipizio delle ore?”. Lotto e Scarabicchi, due uomini lontani nel tempo ma vicini nel sentire, entrambi sulla soglia della storia, “cielo di chiusa tenebra d’azzurro”, avevano in comune il silenzio e le Marche, “non aspetto nessuno e c’è silenzio / in quest’Ancona dove conto gli anni”, dove il poeta era nato nel 1951 e il pittore – che aveva lasciato la natia Venezia perché ignorato e oscurato dall’ombra grande di Tiziano – aveva lavorato, ne aveva fatto un ultimo approdo, e qui aveva iniziato a tenere il suo Libro di spese diverse, una sorta di registro contabile che si fa prezioso diario, “intatto coro / del giorno disperato”, e ci consente di conoscere per scorci il mondo interiore di questo artista solitario e ramingo, “ogni volta anonimo e straniero”, ci mostra uno spiraglio dei suoi giorni tempestati di delusioni e umiliazioni. “Questa solitudine degli anni / è il solo pegno che mi resta della vita”, una vita che arrancava anche nelle difficoltà economiche, “un contar di quattrini… / vita che paga il prezzo, / vita che vende / Non ha memoria né orma la moneta”. Nel testamento del 1546, Lotto si definisce “solo, senza fidel governo et molto inquieto nella mente”. Marginale e sbeffeggiato in vita, rivalutato a partire dalla monografia del 1895 del critico Bernard Berenson, che di lui scrisse: “Per capire bene il Cinquecento, conoscere Lotto è importante quanto conoscere Tiziano”, aggiungendo che dove gli altri miravano al conformismo, lui puntava invece all’animo umano, “l’umano nel divino e quei colori spenti / sono l’ultima incognita che lascio”.
Nella scrittura di Scarabicchi, limpida come un vetro lavato dalla pioggia, nel significato e nel significante di quest’uomo che sembra essere vissuto in punta di piedi, c’è il ricordo, il tempo e la morte, ogni cosa che si perde e che ci lascia, dunque la vita, “un abitar precario”. Nelle tele di Lotto c’è la luce ferma della natura misteriosa, “misura di me e del turbamento / che provo ad ogni passo”, e nei suoi ritratti di gente comune, “li vedo al fondo del mio sguardo / che li percorre come un continente”, considerati l’apice della ritrattistica cinquecentesca, c’è il qui e ora del segno dell’animo, e quella nota malinconica che, in ogni tempo, tutti ci portiamo dentro. “Solo chi è attento al flebile battito può dir qualcosa dell’uomo”, scrive Scarabicchi. Gli occhi dell’Annunziata di Recanati del 1534 – che mette le mani avanti in presenza dell’angelo, mostrando forse in quel gesto il controcanto della fede – vengono definiti da Francesco Arcangeli un capolavoro di trepidazione e tristezza, “traccia d’eloquenza misteriosa / voi cercatemi ancora in quella trama”.
Due uomini lontani nel tempo ma vicini nel sentire, entrambi sulla soglia della storia, avevano in comune il silenzio e le Marche
“Partirò un’altra volta, / un’altra volta sceglierò di andare”. Lorenzo Lotto peregrinò molto per l’Italia – “nel non avere mai luogo è il mio destino” – in cerca di committenze e riconoscimenti della sua arte non convenzionale, versatile e intrisa di tensione ed espressività. Era restio ad adeguarsi al canone del suo tempo e pertanto “esule infelice della grazia”. Pietro Aretino, in una lettera di tonante perfidia, gli suggerisce amichevolmente di puntare alla gloria celeste piuttosto che a quella terrena: “il cielo vi restorarà d’una gloria che passa de lo mondo la laude”. Roberto Longhi nel 1946 sosteneva che artisti come Lorenzo Lotto hanno la sorte dei vinti, perché in contrattempo, più moderni della società in cui si trovano ad essere ospiti indesiderati e quasi al bando. “Povero me che sto tra le mie labbra / e il dubbio”. Nella immensa Pala Martinengo, un olio su tavola del 1516, conservato nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Stefano a Bergamo, commissionato dal capitano di ventura Alessandro Martinengo, si nota, secondo i critici, l’audacia e l’originalità di quest’uomo viandante che in vita era dato per morto dai contemporanei vincenti. “Mi ricordo d’aver penato tanto / a combinar colore, / a tessere degli abiti la forma”. La sezione centrale ospita la Madonna col Bambino. Alcuni dei santi ai lati sembrano poco interessati alla Vergine, e più intenti a osservare gli angeli colti in un momento di lavoro mentre reggono corone e festoni e stendono teli. “Sono presenze vive in tanta pace / conquistata e vinta”.
La pittura e la poesia sono narrazione della lunga eco della memoria universale, riescono a restituire forza all’immagine ed evocano panorami di esistenza, “che di taglio osserva chi l’osserva”. Offrono la possibilità di un’immersione, un piacevole sprofondare che è risveglio e balsamo per i sensi. Dal connubio di questi due geniali e periferici artisti del dire le linee della vita, due brillanti artigiani di parola e pennello, nascono delle stanze di arte. “Aspetto chi mi visita ogni giorno, / chi passa e mi trascura oppure lascia / il sentimento muto di un saluto”. Sono struttura metrica, le stanze, e sono anche luogo che ospita il passaggio della vita. I consigli non richiesti sono spesso fastidiosi, ma corriamo il rischio e vi invitiamo a guardare Lotto e leggere Scarabicchi, a ritrovarvi in questi luminosi linguaggi e a smarrirvi nella grazia dei segni, “e di quel popolo dentro le cornici / l’immobile festa che resiste”.
La “Presentazione al tempio”, incompiuta: “La figura che esce dal vano di una porta è l’origine della voce che parla di sé in questi versi”
L’ultima tela di Lotto – quasi ottantenne e debilitato nella vista – è la Presentazione al tempio, rimasta incompiuta e considerata dalla critica una sorta di testamento spirituale colmo di luce sobria e commossa. Un olio su tela datato 1552-56, si trova nel Museo Pinacoteca della Santa Casa di Loreto, dove Lotto visse i suoi ultimi anni da monaco oblato, “per non andarmi avolgendo più in mia vecchiaia”, annotò nel suo Libro di spese diverse. E’ da questa tela che Francesco Scarabicchi intraprende il suo percorso poetico spiegando: “proprio la figura che esce dal vano di una porta, nella zona alta del dipinto, è l’origine della voce che parla di sé in questi versi”. E’ una figura, continua il poeta, che pone una teoria di domande a cui non c’è risposta. E così dev’essere, perché l’assoluto e l’esistenza sono una domanda infinita, “un universo di teatri fermi / nel gran disegno della mia pittura”.
L’arte, nelle sue diverse espressioni, è un infinito esistenziale, è patrimonio della nostra umana quotidianità. L’artista, sia esso pittore o poeta, musicista o scultore, scrive il mondo, lo contiene, tenta di custodire frammenti di tempo nel guscio della sua opera, e ci offre il privilegio di godere di questi istanti imperituri, che somigliano sempre “a questo adesso, / se tieni a mente gli occhi”. Lotto e Scarabicchi sembrano essere quella presenza muta che sta un passo indietro, che quasi si scusa di esistere, e da lì, da quell’angolo in chiaroscuro, danno voce, ognuno a suo modo, a ogni voce che fa il mistero e lo stupore del mondo. Hanno in comune anche l’altezza della loro maestria, entrambi possiedono la capacità di visione e l’ingegno di farne metafora esistenziale, entrambi sono custodi della liturgia del chiarore di ogni cosa che invade lo spazio del pensiero.
“In lui, di me, c’è in verità quel vero / che mai non mostro”. Accade che un incontro – non necessariamente fisico ma vissuto attraverso le pagine di un libro, le note di uno spartito, i colori di una tela – risuoni dentro di noi e in qualche modo reclami, esiga che gli si dia forma. Succede che da un incontro venga fuori una metrica di animi. Così sembra accadere a Scarabicchi che, nella sua adolescenza, incontra Lotto nelle tele, “fiato del sogno che giammai si spegne”. Il poeta pensava che il destino avesse un disegno plurale, e in questo disegno, in questo “cielo di combuste nubi buie”, lo squarcio limpido di certe tracce rimane “mentre trascorre / la vita che non sa che noi esistiamo”. Poco si sa della morte di Lotto, c’è una nota di servizio del monastero che lo ospitava che così reca: “Si incassano tre fiorini e cinque bolognini per la vendita di un matarazzetto già di Lorenzo Lotto”. Potrebbe essere l’incipit per un racconto sull’anonimato della vita, vissuta comunque con tutte le forze. “Spero possiate rimediar l’errore / perché il lume, per riflesso, / ha più forza se viene dalla parte dritta”.
Scarabicchi era consapevole del fatto che, in questo lampo che chiamiamo vita, sono gli oggetti a resistere e a sopravviverci
L’arte nella sua intera compiutezza ci consente di sfiorare l’intima sostanza di tante remote esistenze, che si fanno a noi prossime e ci rendono molteplici nella ricchezza interiore. “L’ho riconosciuta la donna nel dipinto, l’ho guardata / per un intenso istante stando muto / vedendo andar le cose al loro verso”. La sconfinata poetessa Wislawa Szymborska, a proposito della lattaia di Jan Vermeer, scrisse che fino a quando questa donna continuerà a versare il latte nella scodella, fino a quando avrà tempo il suo silente gesto fermo nella tela, il mondo non meriterà la fine del mondo, perché sì, perché nel gesto dell’arte c’è l’umanità, ci siamo noi interi “nella luce terribile dell’ora” ma anche “nella quiete della casa / dove appeso sta, bianco, il bianco asciugamano, / dolce creatura che d’un tratto è madre”.
La vita muore, e questa è una certezza. Una certezza dimenticabile perché ci spaventa la sua ombra, e invece quell’ombra è uno schianto di luce, una spinta ad approfittare di ogni squarcio per vivere al meglio questo fuoco d’artificio che siamo. “Questa ossessione inutile e costante / di dare voce al fiume della vita”. Francesco Scarabicchi era consapevole del fatto che, in questo lampo che chiamiamo vita, sono gli oggetti a resistere e a sopravviverci, ma è proprio da questa consapevolezza di fugace nullità che scaturisce il bianco di una pagina, il vuoto di una tela e il bisogno di colmarlo con una traccia che resta, che ignari ci contiene in un istante perenne, “l’immagine che sceglie il luogo e l’ora / e me come suo tramite al servizio / d’una concreta forma dell’umano”. Siamo sentimentali, nostro malgrado, ci piace credere a un altrove altro, leggero e senza fine, “quando già soffia il vento a tramontana / e il mio mantello si fa ala e vela”, e pertanto ci piace pensare che chissà, magari adesso, Francesco Scarabicchi e Lorenzo Lotto se ne stanno a osservare insieme, da uno sperato lassù, “il male della polvere” di quaggiù, scambiando due chiacchiere cordiali “nel cuore della luce”.