Giornata della memoria
“Libidine di asservimento”, ovvero la resa degli intellettuali italiani alle ignobili leggi razziali
Il silenzio dell’intellighenzia italiana sul censimento del ’38 che voleva accertarne la “razza”. Fu opportunismo, più che vera ideologia antisemita. L’eccezione di Benedetto Croce
Il 2 giugno 1980 il Corriere della Sera pubblicò una lettera che aveva in calce una firma a quell’epoca del tutto sconosciuta per i lettori: Liliana Segre. La futura senatrice a vita vi denunciava “l’escalation di un falso storico che si sta attuando con successo”, cioè l’idea che i deportati uccisi nei campi di sterminio fossero “politici e quasi tutti di estrema sinistra”. “La realtà invece – scriveva – è ben diversa: i deportati dei campi di sterminio erano per la maggior parte ebrei e solo eccezionalmente politici civili o militari”. Il fatto che una ex deportata dovesse precisare qualcosa che oggi risulta del tutto ovvio ci dice quanto fosse scarsa o nulla a quel tempo la conoscenza della Shoah e delle varie forme della persecuzione antiebraica. Confermava dunque la necessità di iniziative che quella conoscenza cercassero di promuovere, come è stata appunto molti anni dopo – in Italia e altrove – l’istituzione di un Giorno della memoria.
E tuttavia da qualche tempo si comincia a dubitare che questa giornata possa effettivamente servire. Un vero dibattito sul tema non c’è mai stato nonostante qualcuno abbia provato a sollevare la questione, come ad esempio Elena Loewenthal qualche anno fa con Contro il Giorno della memoria, un pamphlet stampato da un piccolo editore torinese. A suscitare interrogativi non è solo il rischio, pur reale, che anno dopo anno le rievocazioni dello sterminio si ripetano sempre eguali. È la stessa data del 27 gennaio, ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, che suscita qualche perplessità. Vari paesi hanno scelto questa data, certo, ma non tutti. In Francia il Giorno della memoria cade il 16 luglio o la prima domenica successiva, in ricordo della grande retata di ebrei condotta dalla polizia francese il 16 e 17 luglio 1942. È una data che appartiene integralmente alla storia di Francia, mentre il 27 gennaio in fondo non appartiene alla storia d’Italia, se non – dal 2000 – come ricorrenza ufficiale. In Italia avremmo potuto scegliere come data il 16 ottobre, in ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma e della deportazione di circa mille ebrei avvenuta nel 1943, ma si decise diversamente.
La sostanziale “lontananza” della data ufficiale rispetto alla storia nazionale non impedisce tuttavia di ricordare la Shoah mettendo a fuoco quegli episodi della nostra storia che più da vicino riguardano la persecuzione antiebraica. Come la colossale débâcle della cultura italiana che si consumò di fronte alle leggi razziali: qualche storico ha sostenuto che il massimo consenso nei confronti della politica antisemita del regime si ebbe proprio fra intellettuali e docenti universitari. I silenzi che accompagnarono la cacciata dei professori ebrei dalle università sono stati ricostruiti da vari studi, ma certi aspetti rilevanti di quella storia restano ancora poco noti. Poco nota è rimasta ad esempio la vicenda del censimento disposto nel 1938 dal ministro dell’Educazione nazionale Bottai per accertare la “razza” dei membri di accademie e istituti di cultura. La vicenda è assai indicativa perché ci si sarebbe potuti aspettare che un significativo numero di coloro che erano sottoposti a un tale indecente censimento rifiutassero di rispondere o inviassero indietro la scheda lasciando in bianco i quesiti “razziali”. Tanto più che, a differenza di iniziative come il giuramento di fedeltà al regime dei professori universitari del 1931, in questo caso la mancata o incompleta compilazione della scheda non avrebbe gettato nessuno sul lastrico; avrebbe soltanto fatto perdere una carica che era priva di benefici economici.
Proprio per questo colpisce che invece quasi tutti gli interpellati rispondessero disciplinatamente al quesito sulla loro “razza”, a volte dimostrando un particolare zelo con dichiarazioni e commenti non richiesti del tipo “Ariano assoluto”, “Ma che ebreo d’Egitto!”. Questa apparentemente marginale vicenda mostra bene quella che fu la cifra caratteristica dell’atteggiamento di tanti intellettuali fronte alle leggi antiebraiche: un atteggiamento generalmente caratterizzato non da una condivisione dell’ideologia antisemita, bensì – e questo non rende la cosa meno grave – da un cinico opportunismo. Perfino studiosi illustri come Vittorio Emanuele Orlando e Antonio De Viti De Marco, che tre anni prima erano stati radiati dall’Accademia dei Lincei per non aver voluto giurare fedeltà al regime, ora non si sottrassero al censimento antiebraico di cui evidentemente sottovalutavano la gravità. Compilò la scheda anche il latinista Concetto Marchesi, che nel 1945 avrebbe poi scritto parole di fuoco contro la “libidine di asservimento” che si era diffusa nell’alta cultura italiana negli anni precedenti.
L’unico caso a noi noto di uno studioso non ebreo che rifiutasse esplicitamente di compilare il questionario fu quello di Benedetto Croce, con una lettera che pochi conoscono (la pubblicò Annalisa Capristo in un suo lavoro su L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane), che meriterebbe di essere letta e commentata nelle scuole il 27 gennaio, a mostrare che anche nelle dittature certi spazi di libertà per i singoli non scompaiono mai del tutto.