I roghi dei libri mentre Hitler dà vita al Reich. Un libro
Niente più illusioni in quel 1933, l’inferno era davvero arrivato al potere. Tra gli orribili anniversari che ricorrono quest’anno c’è il novantesimo della fine della Repubblica di Weimar
Tra gli orribili anniversari che ricorrono quest’anno c’è il novantesimo della presa di potere di Adolf Hitler e della fine della Repubblica di Weimar. Il Reich che doveva esser millenario durerà solo una manciata di anni. Tanto veloce è stata la sua distruzione – seppur non abbastanza – altrettanto repentina è stata la sua costruzione. Per dire: Hitler, nato in Austria, nel 1932 prende la cittadinanza tedesca per candidarsi contro Hindenburg, nel gennaio del 1933 diventa cancelliere, e meno di due mesi dopo tutti gli altri partiti diventano illegali. Certo, le basi ideali su cui costruire la tirannide populista erano lì da tempo, come spiega Mosse nel fondamentale Le origini culturali del Terzo Reich, ma la rapidità d’esecuzione materiale, burocratica, fisica, è allucinante. Sempre cauti bisogna essere nei paragoni col nazismo, ma se il passaggio da stato di diritto a dittatura può esser così rapido, leggere la storia della Germania ci invita a stare sempre attenti a mitomanie, violenze e razzismi.
A ricordarci la rapidità con cui una repubblica si può trasformare in una feroce dittatura c’è il libro, appena uscito per Marsilio, dello scrittore tedesco Uwe Wittstock Febbraio 1933, l’inverno della letteratura. Il focus microstorico di Wittstock è sugli ambienti culturali, in particolare letterari e teatrali della Germania del 1933, proprio di quel mese in cui tutto crolla e in cui una grossa parte dell’intellighenzia è costretta a fuggire dal paese per evitare di finire in uno dei primi campi di concentramento, o ammazzata di botte nelle prigioni gestite dalle Camicie brune. In giro le SA e le SS iniziano a entrare nei teatri e a interrompere gli spettacoli, iniziano ad arrestare, picchiare e uccidere. Nelle strade iniziano i primi roghi di libri.
Thomas Mann, che ha già vinto il Nobel, è in giro per l’Europa per delle conferenze, e viene tenuto alla larga dalla Germania dai figli e dagli amici che gli dicono: non tornare. Dopo molti ripensamenti accetta di non rientrare nel suo paese, e si fa portare in Svizzera, da Monaco, il manoscritto di Giuseppe e i suoi fratelli. Suo fratello Heinrich Mann, presidente della sezione letteraria dell’Accademia delle Arti di Berlino, all’inizio rifiuta di andarsene, è alla guida di una delle più importanti istituzioni culturali. Dieci giorni dopo se ne va di soppiatto raggiungendo l’amico Wilhelm Herzog nel sud della Francia. Morirà in esilio a Santa Monica nel 1950.
George Grosz, pittore e caricaturista, viene invitato a insegnare in America, lascia la Germania con sua moglie e due scatoloni. Pochi giorni dopo il suo arrivo a New York, le SA si presentano armate d’ascia nel suo appartamento. Bertolt Brecht è costretto a dormire ogni notte in una casa diversa e poi, quando capisce che lo arresteranno, se ne va a Praga. Lo scrittore Erich Kästner dice ad alcuni amici che gli mostrano i biglietti per Parigi: “Non dovremmo piuttosto restare? Non possiamo alzarci e andarcene tutti”. Lui, pacifista convinto, sarà tra i pochi a restare per tutta la guerra in Germania, vedendo i suoi libri bruciati nei roghi.
Gli esiliati andranno soprattutto in Svizzera, alcuni prima a Vienna e Praga e poi in Francia. Alcuni non torneranno mai più. Importantissimi come nemici, i primi da eliminare nella costruzione del regime, gli intellettuali si sentono impotenti, schiacciati dalla violenza e dalla macchina propagandistica che Joseph Goebbels sta mettendo su, tra fiaccolate mistiche e cinema. Tutto accade troppo velocemente perché riescano a capacitarsi di cosa stia davvero succedendo, molti convinti che la situazione durerà solo qualche mese. Altri, come Joseph Roth, vedono un futuro nero. Scrive a Stefan Zweig a gennaio: “Non si faccia illusioni. L’inferno è al potere”.