"O Dante!"
Manacorda rilegge Dante: un'anomalia fuori dal romanzo e dalle liriche
Il nuovo volume edito da Castelvecchi è un libro folle, ma di una follia feconda, di fronte alla quale occorre mettersi in ascolto disarmati come l’autore ha fatto davanti al sommo Poeta. Ne viene fuori il ritratto di un'epoca antiumana
Chi per mestiere recensisce libri, tende a trattare ogni opera come un caso risolto: deve mostrare che l’ha in pugno, che è tutta spiegabile, e che nulla quindi lo sorprende. In breve, questa abitudine diventa un vizio: perché induce a parlare con più frequenza dei testi facilmente “risolvibili”, che non sempre sono i migliori, e a trascurare invece quelli da cui il recensore è stato più impressionato, ma di cui non sa dare subito una definizione esauriente. In alcuni casi sembra perciò più onesto dichiarare il proprio sconcerto. Con questo sentimento ho letto “O Dante!” di Giorgio Manacorda, un “poema per il 2000” pubblicato da Castelvecchi e lungo 300 pagine. Libro folle, ma di una follia feconda; e libro di fronte al quale occorre mettersi in ascolto disarmati come l’autore ha fatto davanti al sommo Poeta, oggi tirato ovunque per la giacca.
Al suo centro ritroviamo il tipico immaginario manacordiano in cui s’affollano sauri e rettili scodanti, che non somigliano a Cerberi ma che s’impongono come i protagonisti di una futura preistoria – come gli animali nei quali ci trasformeremo o dai quali verremo divorati. Rileggere Dante ha permesso a Manacorda di descrivere un mondo che “è il contrario del suo”, e che da un Paradiso del profondo scivola verso un Inferno da Darwin distopico. All’inizio, riprendendo l’idea dantesca della donna salvifica, l’autore ce ne offre una parodia postfreudiana: il Femminile sta qui tutto nella “mia fattrice” che “si separa da me perso e indifeso” creando “l’immagine del figlio uguale al figlio”, e che così “cura l’ansia” non con le carezze ma con il loro “pensiero”, ovvero con la metafora – con quella poesia irriducibile sia alla verità teologica sia ai velleitari tentativi moderni di far coincidere parola e cosa. Ma nella cantica infernale ci è indicato il rovescio di una tale salvezza: le madri “per godere di un attimo hanno ucciso / senza residui e senza remissione”. Si nasce alla morte, e l’unica provvidenza è il fato di una “atroce biologia”.
La storia cristiana che la “Commedia” sigilla, e la storia illuministica che anticipa, si sono già dissolte. Ora si apre un’epoca antiumana di anfibi e mutanti minacciosi, visti o sognati da un Io chiuso nell’ultima villa borghese sul mare, in attesa che le bestie sfondino la porta. Questo soggetto è l’alter ego di uno scrittore ormai distante dalla cultura in cui è cresciuto. Per i letterati del XX secolo Dante ha rappresentato la nostalgia di un’inimitabile arte epico-enciclopedica, o l’emblema di un realismo espressionista da opporre all’esangue filone petrarchesco. Era, il loro, un Dante modernamente slabbrato, culturalistico, simbolico: perché fuor di metafora, come dissero a un piccato Luzi, “e’ va lasciato stare”, essendo collocato troppo lontano e troppo in alto. Invece Manacorda prova proprio a verificare cosa capita se lo si coinvolge in un temerario testa a testa facendolo reagire con ciò che siamo, senza privilegiare gli echi letterari del ’900 su altre e forse più forti eredità “biologiche”. Dove i suoi maestri, “fabbri infelici dentro le officine”, hanno usato i versi come una “macchina” più o meno celibe, lui ribadisce la stessa condizione di orfanità in uno stile molto diverso.
Nella sua rilettura ecolalica impasta le terzine dantesche con le proprie ossessioni senza evidenziare le fratture, e sorvola il bulicame di un universo senza centro lavorando su strofe di due versi materici e leggeri, che oscillano intorno all’endecasillabo con l’incertezza di un nuovo Medioevo metrico. La mente va a tentoni, gioca come chi suona uno strumento maestoso servendosi di due sole dita. Secondo i moderni la nostra civiltà è fatta per la poesia breve: non regge più i lunghi poemi, o li considera grevi melodrammi da cui isolare le arie più belle. Eppure con le sue rime interne da dissipata cantilena, e con la sua ispirazione “interlineare” davanti alla “Commedia”, Manacorda riesce a trascinarci in un testo che non si legge né come un romanzo né come una serie di liriche, ma come il frutto di una seduta analitica in cui affiorano per catene associative le percezioni primarie, i terrori psichici e politici del nostro occidente informe. Non è più questione di confronti tra nani e giganti. In un certo senso l’autore di “O Dante!” è fuori dalla letteratura: nel corso di ottant’anni l’ha assorbita fino a dimenticarla, e a tradurla in un gesto fisiologico e naturalissimo. Il suo è lo “stile tardo” di chi non ha più niente da dimostrare; e a scandalizzarci, o a lasciarci senza parole, è forse questa condizione di libertà, oggi così rara da apparire quasi impossibile.