La recensione
Che Trimalcione quel Giuliani ...
I testi del critico Alfredo Giuliani raccolti e pubblicati da Adelphi. Maestro della dilatazione, del particolare, profondo studioso e protagomista della Neoavanguardia
Aveva ragione Paolo Milano, la critica letteraria può esercitarsi in vari modi ed il Novecento è stato dovizioso di molti metodi interpretativi; ma al di là di questi persisterebbe una critica “che va lasciata senza aggettivo”, e della quale, per lustri, è stato massimo esponente Alfredo Giuliani. Nel suo infaticabile transumare da un andito ad un altro della letteratura, con un’intenzione che non mira mai ad un semplice “trascrivere, decifrare, disenigmaticare” i testi sui quali si sofferma, egli si procura sempre di osservare con la massima cura alcuni particolari, quasi sempre poco o nulla appariscenti, per dilatarli e metterli in relazione con altre parti e col tutto. Egli non tenta perciò mai di spiegare il testo, bensì di dispiegarlo intorno a lui, mentre “beatamente, vi circola dentro, disponibile a tutte le soste, a tutte le deviazioni”.
Fu del resto questo coltivare il piacere del testo attraverso infinite variazioni di scrittura a caratterizzare la Neoavanguardia italiana, il suo teorizzare e praticare – ha scritto Alfonso Berardinelli – “l'autonomia delle forme, la letteratura come menzogna, l'estetizzazione della politica, l'innovazione permanente, ludica e gratuita come laboratorio accademico”. Non a caso Giuliani figura in quel “fastoso veglione” nel quale Manganelli, in una pagina del 1968, immagina si sia dato convegno il “racket degli illegibili”: Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani.... E tuttavia, rispetto allo stile di questi ultimi, nei quali l’uso del linguaggio è sì quello della rappresentazione, ma ciò che in esso si rappresenta “è un oggetto il cui solo statuto è la rappresentazione”, sicché la “cosa” non si lascia mai cogliere, perché là dove essa appare, “funziona ancora come segno di una situazione più fondamentale”, in Giuliani sembra prevalere, una volta indossati i panni dell’elzevirista, la scelta per una letteratura tradizionale che accetta l'esistenza della lingua colta corrente nelle sue strutture semantiche e sintattiche e ne accetta l'esistenza come una garanzia, pur mantenendo egli quella sensibilità che, nella sua veste di poeta e corifeo dei Novissimi, lo spingeva a dichiarare la necessità di rifiutare “l’oppressione dei significati imposti”, così da poter raccontare, senza per ciò cedere ad un tono mimetico, o esplicativo, o semplicemente razionale nel senso illuministico o naturalistico della parola, “storie pensieri e bubbole di questa età schizofrenica”.
Ma Giuliani non è stato soltanto il visitatore assiduo delle esperienze letterarie del Novecento prossimo venturo, siccome di quelle stipate nel museo delle cose pensate da una tradizione che per molto tempo ha proceduto unicamente per illuminazioni crociane, come pure potevano far presumere le raccolte di suoi precedenti scritti, da Le droghe di Marsiglia (1977) ad Autunno del Novecento (1984). Il divagare dei suoi interventi – la più parte consegnati alle pagine de “la Repubblica” nell’arco d’una ventina d’anni – si attestò invero su un campo ben più esteso, e capace di contemplare il mondo classico, l’esotico letterario dell’Estremo Oriente, i classici della civiltà letteraria europea, oltre ovviamente agli autori ed ai libri a noi più prossimi. La silloge ora ordinata da Andrea Cristiani per Adelphi lo testimonia fin dal titolo, La biblioteca di Trimalcione (pagg. 392, euro 35,00) che allude al rodomontesco elenco di biblioteche di cui il personaggio del “Satyricon” di Petronio si fa vanto: egli ha una biblioteca d’autori Greci ed un’altra d’autori Latini, e quindi una terza raccolta, vuota invero di testi e colma solo della sua burbanza. Nondimeno – osserva Giuliani – essa sembra far segno all’infinito, perché emblematizza la profusione, l’eccesso, forse anche l’evasione da ogni malinconia. È l’ingordigia verso “studiate leccornie” a dettare il criterio col quale ci si addentra nel labirinto degli studia humanitatis. Ed è soprattutto in questo girovagare da un autore ad un altro, da un libro ad un altro, la cifra della “concupiscenza libraria” di Giuliani, che a volte si sofferma sul romanzo (“Madame Bovary”, “Le confessioni d’un italiano”, “Il castello”), luogo nel quale “la realtà si lascia completamente affabulare, e alla fine scaturisce dall’immaginario che mescola l’esperienza con l’invenzione”, altre preferisce indugiare – come accade per il “Diario” di Murasaki, poetessa e scrittrice giapponese dell’XI secolo – su quei testi che hanno “la ambiguità del provvisorio”, del “non finito”.
Ad attrarre Giuliani sono però specialmente quelle opere nelle quali la letteratura si fa allegoria di sé, come accade ne “Le città invisibili” di Calvino, così come quelle in cui l’allegoria si lascia assorbire in una figura singola, irripetibile, come accade nella prefazione al “Milione” firmata da Manganelli, in cui s’assiste al tentativo di “adulterare il racconto del nitido e laconico Marco, di insinuare le proprie frasi esornative e artefatte nel duro e onesto resoconto di notizie evocate dalla memoria di Marco”. Non a caso, scrivendo di Keats, Giuliani non può dispensarsi dal ricordare come per l’autore delle “Lettere sulla poesia” ogni cosa non sia altro che “un'allegoria continua, di cui pochi occhi riescono a svelare il mistero”. L’allegoria è del resto una figura retorica poliedrica, capace di assumere ora i tratti “di una ritorsione metafisica, di un agonismo eroicomico”, come in certe pagine leopardiane, ora quelli di un muto accenno allo stato di natura come maceria, prodromo all’istaurazione del frammento come categoria dominante dell’estetico, come sembra suggerire la saga di Gilgamesh, letta però con la sensibilità di chi, uso a frequentare i testi di Queneau, di Michaux, di Calvino, sia abituato a percorrere i piani della significazione secondo un continuo saliscendi e a seguire il desultorio incedere di una curiosità che, guidata da uno scetticismo “intensamente possibilista” e “giocosamente affascinato da tutti gli estremismi formali”, sospinge verso “tutto ciò che è oltre il vero e il falso”.
Perché in fondo, insegna anche in questa occasione Giuliani, alla letteratura, di qualsiasi epoca e latitudine, occorrerebbe sempre avvicinarsi con un “tautofono”. Il quale – si legge nell’omonima opera data alle stampe da Giuliani nel 1969 – non è altro che “l’equivalente auditivo delle macchie di Rorschach”: al lettore “viene fatto ascoltare un disco che reca incisi simulacri di frasi, suoni che somigliano a sequenze di parole ma che non possiedono nessuna connotazione semantica. Come la macchia è indifferente all’interpretazione (può essere, poniamo, un pipistrello o una vulva), così la frase inintelligibile non può identificarsi in questo o quel significato: persuade ironicamente a trovargliene uno, ma tutti sono “buoni” e patologici in diversa misura. Interpretando l’oracolo decifriamo noi stessi”.