Il giorno prima di Auschwitz
La lezione dignitosa e imparziale di vita di Etty Hillesum
La scrittrice morta in un campo di concentramento poteva salvarsi ma scelse di non abbandonare la sua gente. Le pagine del suo Diario edito da Adelphi sono un percorso verso la luce della consapevolezza di sé e del mondo
"Non si può spiegare l’essere umano con nessuna formula psicologica: solo l’artista è in grado di rendere ciò che resta d’irrazionale nell’uomo… L’ho detto male, ma so cosa voglio dire”, così scriveva Etty Hillesum. Nell’ormai trascorsa Giornata della Memoria, lo sguardo penetrante di questa giovane donna in bianco e nero è passato su tutti i social, insieme a incantevoli foto di panorami, scorci di città innevate da nord a sud, “buongiornissimi” in lingerie di pizzo, e suggestivi piatti di pastasciutta con didascalie sapienziali. “Una enorme quantità di cose che ogni tanto culmina in una indigestione”. Sappiamo che l’uomo è straordinariamente capace di fare del male ai suoi simili, e sappiamo pure che è recidivo. Sappiamo che c’è ancora di mezzo quel famoso mare tra il nostro dire e il nostro fare. “Vedo, in un brutto sogno, / l’istante inseguire l’istante”, diceva il poeta ebreo-russo Osip Mandel’stam, uno dei grandi doni del ventesimo secolo, morto nel 1938 nel gulag di Vladivostok, nel programma delle purghe di Stalin, “il montanaro del Cremlino”, come Mandel’stam stesso lo definì. Il poeta fu una delle tantissime vittime dell’olocausto rosso. La sua opera è sopravvissuta grazie alla dedizione della moglie che imparò a memoria le sue poesie.
“Sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto”. Alcune figure, sebbene in bianco e nero, hanno il colore del presente, e ci offrono non soltanto la possibilità di ribadire l’ovvio, ovvero che le dittature – quale che sia il loro colore e la loro direzione – sono state e sono una abominevole realtà, ma ci consentono anche di ri-conoscere la bellezza luminosa di chi ha lasciato una traccia con la sua opera. “Respiravo l’aria fresca non razionata”. Forse le giornate della memoria coi loro volti e le loro parole, adesso diligentemente riposti in un cantuccio fino al prossimo anno, servono soltanto a ricordarci che siamo pericolosamente vicini ad altre parole che continuano a essere fatti: estremismo, intolleranza e oppressione. Forse bisognerebbe avere “un cuore pensante”, come scriveva Etty Hillesum, che con il suo sguardo poetico sul mondo ci offre una chiave di lettura di noi stessi. “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”.
Ormai lontani dalle giornate commemorative, non vogliamo tanto indugiare sulla “banalità del male” quanto considerare il giorno prima della rottura dell’equilibrio, il giorno prima del lager, “questo spazio in cui si può ancora stare e essere lieti e far musica”, attraverso la figura di questa donna vitale e curiosa, che emerge fulgida dalle pagine del suo “Diario 1941-1943”, edito da Adelphi, curato da Jan Geurt Gaarlandt e tradotto da Chiara Passanti. “Sono Etty Hillesum, una laboriosa studentessa in una camera ospitale con dei libri e un vaso di margherite”. Le citazioni sono tutte della Hillesum. Il suo diario, che iniziò a scrivere all’età di ventisette anni, è il percorso di un’anima che vede il bello in ogni cosa e a dispetto di ogni cosa, e vive fino in fondo. “Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità”. È una brillante e profonda immersione nella cecità dell’uomo, e applicabile all’uomo sempre. Le sue pagine, nonostante la tragica conclusione, sono un percorso verso la luce della consapevolezza di sé e del mondo. “Non è facile penetrare con le parole fino nel fondo delle cose”. È uno sforzo di analisi di se stessi e della realtà che ci circonda quello che viene fuori dalle parole intense di questa donna che perdonava Dio – “perché forse non è colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra” – e lo definiva “la parte più profonda di me”. È una lezione dignitosa e imparziale di vita, di fede, di amore. “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.
Esther Hillesum, chiamata Etty, era nata nel 1914 a Middelburg, in Olanda. Viveva “in un modo libero e scorrevole”. Instabile nella salute, è una figura complessa sul piano affettivo e sentimentale. “Devo disciplinare tutto questo caos”. Apparteneva alla borghesia intellettuale ebraica. Il padre, insegnante di lingue classiche, era un uomo colto, silenzioso e schivo e tuttavia dotato di senso dell’umorismo. La madre, di origine russa, aveva una personalità forte e passionale. L’affascinante fratello maggiore studiava medicina, fu ricoverato in alcuni istituti psichiatrici, pare fosse psichicamente labile, anche l’altro fratello, talentuoso musicista, fu sottoposto ad alcuni trattamenti per schizofrenici. “Un tempo la mia pittoresca famiglia mi costava, ogni notte, almeno un litro di lacrime; arrivavano da chissà dove, da un oscuro soggetto collettivo”. La Hillesum è morta ad Auschwitz nel 1943, insieme alla sua famiglia. “Un piccolo pezzo di eternità scende su di me con un largo colpo d’ala”. Voleva diventare una scrittrice. “Forse in futuro saprò esprimermi meglio, o farò dire queste cose al personaggio di un romanzo”. Laureata in giurisprudenza, era affamata di conoscenza, leggeva Rilke e Dostoevskij passando per Sant’Agostino, “è così austero e così ardente. È così appassionato”, e la Bibbia, “un libro davvero avvincente… Dostoevskij trascorse quattro anni di galera in Siberia avendo la Bibbia come sua unica lettura”.
Aveva studiato lingue slave e letteratura russa. Insegnò lingua e letteratura russa all’università di Amsterdam, e qui viveva in un appartamento di proprietà di un vedovo di circa vent’anni più grande di lei, col quale intratteneva una relazione. “Han ha una vita semplice e buona, (…) mi appare tanto fragile e delicato”. Ebrea non praticante, “com’è strana la mia storia – la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi”. Imparerà a pregare, “è il mio gesto più intimo, ancora più intimo dei gesti che ho per un uomo”. Appassionata di psicologia junghiana, conobbe nel 1941 l’ebreo-tedesco Julius Spier, il fondatore della psicochirologia, la psicologia di tendenza spiritualista, che studia e classifica le linee della mano, “la lettura del mio secondo volto: le mani”. La Hillesum rimane affascinata da quest’uomo più grande di lei di quasi trent’anni, “ieri, come una scema, non riuscivo a fare altro che guardarla, si è poi prodotto in me un tale sconquasso di pensieri e sentimenti contrastanti, che mi sentivo annichilita… erano forti sentimenti erotici verso di lei… d’un tratto ci fu anche uno sconfinato senso di solitudine, la percezione che la vita è così terribilmente difficile”. Fu dapprima sua paziente, poi sua segretaria e in seguito intrattenne con lui una relazione. “Lo trovavo piuttosto indisponente. Ma, più tardi, c’erano di nuovo quei meravigliosi occhi così umani che venendo da grigie profondità erano posati su di me, indagatori”.
Nel 1942, lavorando presso una sezione del Consiglio ebraico, ebbe la possibilità di salvarsi, ma la determinazione nelle sue convinzioni umane e religiose la spinse a condividere la sorte del suo popolo, non voleva sottrarsi al destino comune. “Povera testa e povero cuore, quante cose vi toccherà digerire”. Sosteneva che rendere giustizia alla vita significasse non abbandonare il prossimo. Il Consiglio ebraico era un organismo creato e controllato dai nazisti per stabilire chi fosse idoneo per “i campi di lavoro” e chi fosse necessario in patria. Quel posto di dattilografa al Consiglio le risparmiava, “fino a nuovo ordine”, l’internamento nel campo di transito di Westerbork, l’ultima fermata prima di Auschwitz per circa centomila ebrei olandesi, ma la Hillesum preferì lavorare proprio lì come “assistente sociale”; lei che aveva desiderato per tutta la vita “che qualcuno mi prendesse per mano e si occupasse di me”, si occupò invece degli altri. La sua fu un’opera di sostegno al prossimo dentro una situazione disperata. “Molto bello qui non è: deperimento, fango”. E in quel campo, dove si trovava anche la mistica Edith Stein, e dove c’era un viavai di treni che arrivavano vuoti e ripartivano pieni, continuò a scrivere il suo diario e anche la maggior parte delle lettere indirizzate agli amici. Anche le “Lettere 1942-1943” sono pubblicate da Adelphi. “Vorrei rifugiarmi, con tutto quello che ho, dentro un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare”. Arrivò il giorno, in quel campo, in cui anche lei e la sua famiglia furono caricati sui convogli in partenza per Auschwitz. Da un finestrino di quel treno, la Hillesum lanciò una cartolina che fu ritrovata lungo la linea ferroviaria e spedita poi alla destinataria, l’amica Christine van Nooten. C’era scritto: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.
La Hillesum considera il senso della vita, ma per questo “bisogna vedersela con se stessi e con Dio”. È un Dio universale, il suo. Una presenza costante nella sua quotidianità. Proprio come Abramo si ritrova a contrattare faccia a faccia con Dio chiedendogli di risparmiare Sodoma e Gomorra dalla distruzione, se mai lì vi trovasse anche solo un giusto, allo stesso modo, la Hillesum scrive: “Improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto di erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero”.
Il suo diario (come accadde con quello di Anna Frank, scritto nello stesso periodo, in una casa a poche miglia di distanza), è composto da otto quaderni, un linguaggio franco e fresco, una scrittura minuta e fitta, difficile da decifrare. È giunto fortunosamente fino a noi. La Hillesum lo aveva consegnato a un’amica. Evidentemente alcune cose nascono per giungere proprio lì dove devono, e mettere radici, si spera. “Tutto è così misterioso e strano, e insieme così significativo”. Fra le pagine c’è la consapevolezza di quanto tante volte ci si smarrisca dietro e dentro inezie e si perdano energie utili per dedicarsi alla sostanza delle cose che contano. “Accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili… dovremo imparare un’altra volta a conoscere noi stessi”. Le grandi verità poggiano spesso su un dato ovvio ma, a quanto pare, si fa un’enorme fatica a comprendere l’ovvio. “Vorrei scrivere parole inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono per coprirlo… Qualunque parola accresce i malintesi su questa terra troppo loquace”.
“Anche se continuassi per pagine e pagine, non avreste idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra… non si poteva fare molto con le parole, a volte una mano sulla spalla era già troppo pesante”. Mentre l’orrore della storia avanza e la realtà si deforma facendosi sempre più assurda e insostenibile, emerge poderosa la forza interiore di questa donna che ha fiducia nell’umanità, la diremmo folle, e insiste a sostenere come dalla vita si possa ricavare qualcosa di buono in ogni circostanza, e che non conta conservare la vita ad ogni costo, ma conta soprattutto il modo in cui questa vita la si conserva. “Nella vita conta ciò che grazie ai fatti si diventa”. Ieri e oggi, ognuno di noi è chiamato a metterci la faccia, a contribuire a rendere migliore il mondo che viviamo e abitiamo. La storia siamo noi, nessuno si senta offeso e nessuno si senta escluso, canta Francesco De Gregori. “E se dobbiamo andare all’inferno, che sia con la maggior grazia possibile”.
Come il poeta Robert Frost, la Hillesum sceglie la strada meno battuta, e forse anche per questo quelli come lei fanno la differenza. Riflette – “riflettere non è la parola giusta, è piuttosto un cercare di approfondire le cose”, con estrema lucidità e intelligenza sulle “cose che riguardano questa vita”, sulle forme del cuore e dello sfacelo, sul “petto nudo della vita”. La vita non può essere colta in poche formule, sosteneva, “la vita potresti essere tu”. Etty Hillesum, che annotava “paura di vivere su tutta la linea”, attraverso il suo percorso ci insegna proprio la resistenza alla vita e agli eventi, “possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere”. Lei che era in cerca di una forma e si diceva ospite di se stessa, ci ricorda che si può scegliere di non cacciare la testa sotto la sabbia, e di credere nei piccoli risultati. “Si vive fianco a fianco con il destino, o comunque lo si voglia chiamare”. Ci insegna che la miseria e la meschinità dell’animo non portano a nulla, che “si deve permettere a ognuno di essere com’è”, ci mostra come si fa a guardarsi intorno con un sorriso di meraviglia e benevolenza. “Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima”. Lei, senza velleità da maestro, si fa maestro. “Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso. Forse, alla lunga, in amore, se non è chiedere troppo”.